Settembre 2011 PRESENTAZIONE DI UN PERSONAGGIO: Don Lorenzo MILANI

notizia pubblica il 29/06/2012 - ultimo aggiornamento del 29/06/2012

Settembre  2011

PRESENTAZIONE DI UN PERSONAGGIO:

 

Don Lorenzo MILANI  


Un sacerdote ricordato ed amato da tantissimi insegnanti ed educatori in genere che hanno visto in lui un modello per  trattare con i giovani di ogni tempo.

 

LA BALIA

Una mastite costrinse mamma Alice Milani a cercare una donna che facesse da balia al suo Lorenzo.

Fu scelta la contadina Carola Galastri abitante a Poppi che affidò il proprio bambino ad altra donna e si recò dai Milani nel lontano paese di  Montespertoli per arrotondare con 250 lire al mese quello che pigliava suo marito come operaio.

La donna ha sempre detto che i Milani erano educati e rispettosi ma mamma Alice quando, alcuni anni dopo, venne a sapere dalla ex balia Carola, che si congratulava con lei per l’ordinazione del figlio Lorenzo, che anche suo figlio si era fatto sacerdote, commentò la cosa con brutale cattiveria dicendo alla povera Carola : ”Latte pessimo”.

            I Milani non permisero mai per un anno intero alla Carola di recarsi a casa sua e le impedirono addirittura di aver qualsiasi contatto fisico con il marito per tutto quel tempo per la paura che l’uomo si portasse dietro qualche contagio per una malattia .

            Carola doveva allattare e basta. Ai due bambini, Lorenzo un fasce e  Adriano di tre anni, guardava una istruttrice tedesca. Quest’ultima faceva loro il bagno, li vestiva, li cambiava e pesava sempre il piccolino prima e dopo la poppata. Poi disinfettava sempre tutto in modo maniacale.

La famiglia Milani non aveva mai meno di quattro o cinque persone di servizio: cuoca, cameriera, servitore, autista, istruttrice tedesca e naturalmente il fattore, il sottofattore e infine altre varie figure di transito come la balia e la maestra.

 

LE PROPRIETA’

            La famiglia Milani aveva una bella villa, detta  la “Gigliola”, nel comune di  Montespertoli. Esisteva di corredo alla villa una fattoria con 25 poderi e l’edificio padronale veniva frequentato specialmente nei mesi estivi. I Milani avevano anche la villa “Il Ginepro” a Castiglioncello e una bella palazzina sui viali di circonvallazione di Firenze. 

All’inizio degli anni Venti ci saranno state una decina di automobili in tutta Firenze e chi ne possedeva una era molto invidiato. Il dottor Alberto Milani padre di Lorenzo ne aveva due.

Don Milani era consapevole che la fortuna economica della sua famiglia era lievitata alle spalle dei contadini e dei pastori dei poderi di “Gigliola” ed è proprio qui che cercò di rimborsare il debito vitalizio contratto moralmente con quei poveri , dando vita alla prima embrionale scuola popolare  a Montespertoli “ . “Scuola non come dono da fare ai poveri ma come debito da pagare”.

 

LA CULTURA DELLA FAMIGLIA MILANI NEL TEMPO

            Domenico Comparetti, il bisnonno di Lorenzo, era grecista e latinista, epigrafista, papirologo e folklorista con larghi interessi per le sue ricerche in tanti campi del sapere. Conosceva  19 lingue fra cui alcune slave e addirittura il finnico. A soli 24 anni era già titolare della cattedra di letteratura greca all’università di Pisa.

            Luigi Adriano Milani, nonno, geniale archeologo e numismatico dedicò la sua vita allo studio dei monumenti antichi e studiò a fondo gli etruschi come docente universitario. Fondò il museo archeologico fiorentino del quale rimase direttore per tanti anni. Fondò anche il museo etrusco di Castiglioncello.

            Laura la nonna che morì molto giovane era poetessa con una cultura molto vasta nel settore letterale e musicale.

            Albano, il padre di Lorenzo, era laureato in chimica ma anche poeta, saggista e filosofo ed aveva come tutti nella famiglia la fissazione di voler conoscere e poi spaccare ogni parola delle varie lingue. Conosceva sei lingue alla perfezione e possedeva una discoteca classica molto fornita che il sacerdote saccheggiò per far conoscere Bach e Beethoven ai suoi ragazzi a Barbiana.

Adriano, il fratello di don Milani, era medico pediatra. Curò amorevolmente Lorenzo nella sua malattia e seguì sempre i bambini dei contadini di Barbiana per anni.

            Lorenzo Milani non fu mai uno studente bravissimo ma aveva una volontà di ferro e al liceo si permise di anticipare il diploma di un anno. Studiava in profondità solo quello che gli interessava e lo faceva alla perfezione. La sua cultura negli anni di isolamento a Barbiana era arrivata a livelli di vera eccellenza, ciò gli serviva specialmente per l’insegnamento ai suoi ragazzi. Conosceva anche lui come i suoi parenti diverse lingue tra cui alla perfezione inglese, francese, tedesco, spagnolo, latino, greco antico ed ebraico.

 

CASTIGLIONCELLO

            Nei mesi estivi Lorenzo Milani passava molti mesi nella villa di famiglia “IL Ginepro” a  Castiglioncello e frequentava tanti giovani di famiglie dell’aristocrazia fiorentina, di quella capitolina e di tutta la penisola. Borghesia mercantile, professionale e intellettuale.

Le frequentazioni fra questi giovani favorivano molto l’arricchimento intellettuale degli stessi. Lorenzo Milani era un felice ed allegro giovane fra tanti coetanei.

Di questo numeroso gruppo di baldi giovani solamente due abbracceranno la carriera ecclesiastica: Paolo Valori, gesuita e missionario e il nostro parroco don Lorenzo Milani.

            Fino alla seconda metà dell’ottocento il promontorio di Castiglioncello aveva pochissimi edifici e tutti di proprietà dello Stato: la torre medicea, la chiesetta di Sant’Andrea e la dogana. C’era sulla strada litoranea una locanda e la sola abitazione della famiglia Faccenda.

            Tutto il resto era di proprietà della famiglia Bernardi e divenne, per successione ereditaria, nella disponibilità del pittore Diego Martelli nel 1861. La malaccorta gestione dei propri beni da parte di questo artista lo costrinse a vendere tutti i beni al genovese Fausto Petrone che si era arricchito con l’importazione del guano peruviano e cileno.

            Il barone Petrone vendeva preselle di terreno soltanto a destinatari che fossero in grado di mantenere il livello delle costruzioni su standard alti.

            Osserviamo che la maggior parte delle località costiere della Toscana si sono sviluppate intorno ad un nucleo originario costituito da villaggi di pescatori mentre Castiglioncello nacque per volontà di un unico proprietario che riuscì a calamitarvi gli interessi di una sola classe sociale, quella alta.

Questi ricchi villeggianti avevano poi contatti con l’altra classe sociale subalterna, quella degli addetti e al proprio servizio: poveri contadini scesi dalle colline del Gabbro e di Nibbiana per fare i casieri, i giardinieri, i camerieri, le lavandaie, le cuoche e come fornitori giornalieri di frutta, uova, verdure, pollame e pesce fresco.

            Fra i primi acquirenti e costruttori di ville a Castigliocello ricordiamo Renato Fucini, il pittore Vittorio Corcos e il professore Luigi Adriano Milani, il nonno di Lorenzo.

Alcuni nomi di frequentatori di Castiglioncello danno una idea di cosa è diventata poi questa località della bella costa toscana:

personaggi della cultura come Oscar Ghiglia, Medardo Rosso , Giovanni Papini, Arturo Toscanini , Ettore Petrolini, Ardengo Soffici, Guido e il figlio Giovanni Spadolini, Pirandello , Marta Abba, Sergio Tofano,  Silvio D’Amico, Emilio Cecchi, Antonio Giolitti, Luca Pavolini, Ginori Conti, i conti Ottobono e Giulietta Rossi, il principe Riccardo Vivarelli Colonna, il principe Filippo Hercolani, la contessa Borgoncini Luca. La contessa Bonaccorsi, il marchese Giorgio Cordero di Montezemolo , la contessa Antonelli, l marchesa Matteucci, i conti Pasquini, la marchesa Corè Casati Stampa di Soncino, i duchi di Cesarò Colonna, la contessa Memmy Strozzi, gli Odescalchi, i Della Gherardesca, i Sanseverino, gli Uzielli, gli Ungaro, i Budini Gattai, i Coletti e le solide famiglie Olivetti, Osti, Catelani, Giurati, Molinari, Castelnuovo Tedesco, Diaz Pavolini, Olmi, Romiti e intellettuali famosi come Bontempelli, Sem Benelli, Cecchi, fanciulli, Achille Campanile, Guyla Rochelle, Silvio d’Amico, giornalisti e personaggi dello spettacolo come Aldo Valori, Luciano Magrini, Luigi Cimara, Memo Benasi, Mario Castelnuovo Tedesco, Sergio Tofano, Alberto Sordi, Gianluigi Rondi e tantissimi altri.

 

 

UN TENTATIVO NELLA PITTURA

            Lorenzo alla fine degli studi liceali manifestò la volontà di cimentarsi nella pittura ed i sorpresi genitori gli procurarono subito l’aiuto del maestro Hans Joachim Staude che aveva lo studio in via dei Serragli a Firenze.

            Lo scolaro era completamente impreparato a questo tipo di attività ma dimostrò subito la sua grande intelligenza e volontà di apprendere.

Il maestro invece di correggere soltanto i suoi lavori gli spiegava e lo spronava a cercare di capire sempre cosa era essenziale, di come si doveva cercare la semplificazione e l’unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno o pittura che sia.

Lui capì al volo queste cose e con grande impegno cercò di mettere in pratica gli insegnamenti. Ascoltava molto e con grande attenzione.

            Il maestro non era cristiano ma simpatizzante del pensiero dell’oriente, in particolare del buddismo,  e giudicava Lorenzo più portato verso la letteratura perché amava molto discutere della “Divina Commedia” e si interessava di ogni opera letteraria che trovava nella biblioteca di famiglia.

Lorenzo era anche molto interessato alla pratica sportiva e giocava bene a scacchi.

            Al suo maestro di disegno, alcuni anni dopo, quando Lorenzo era già un sacerdote, che lo interrogava sulla sua scelta di vita dicendogli francamente di non vederlo volentieri con quel vestitone nero, Lorenzo rispose:

E’ tutta colpa tua se sono ora prete. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose con tutte le sfaccettature possibili, di vedere le cose stesse come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada”.

 

LA EX FIDANZATA

Nel periodo in cui iniziò la sua “bohème” a Milano era soprattutto la figura umana che studiava.

Aveva diciannove anni ed era un bel figliolo, le modelle si incapricciavano di lui e la loro intraprendenza lo imbarazzavano non poco.

Lorenzo rispondeva sempre con un rifiuto categorico, a volte brutale.

Conobbe anche una ragazza, Carla, una milanese con la quale fu quasi fidanzato.

Si conoscevano fin dalla infanzia ed il padre di lei era un chimico come quello di Lorenzo.

Era una ragazza colta, simpatica, dall’intelligenza vivace, con una personalità spiccata: un’eccellente interlocutrice quando Lorenzo iniziò la sua ricerca sulla motivazione dell’arte prima e della liturgia dopo.

Il compagno di seminario Auro Giubbolini racconta che Lorenzo gli chiese di leggere un grosso pacco di lettere sue e di Carla, chiedendogli se secondo lui doveva conservarle o distruggerle. L’amico gli disse che le avrebbe conservate perché era soltanto la corrispondenza molto fitta tra due ragazzi giovani e sensibili . Parlavano del concetto di pittura, della rilevazione dei colori, dell’importanza e della funzionalità dell’arte, di un libro che sull’argomento stava scrivendo Lorenzo.

Soprattutto, c’era dentro la storia completa della conversione di Milani: dai momenti di avvicinamento alla Chiesa all’ingresso nella stessa.

“Piano piano lui arrivava a dire alla ragazza che si sarebbe fatto prete.

Mentre in lui cresceva la sicurezza, la piena coscienza del passo che stava per fare, in lei aumentava lo smarrimento e il dolore. Fino ad un certo punto lei lo aveva seguito nei suoi ragionamenti di fede. Poi cominciava a ribellarsi, contrastando questo o quell’argomento, finché era la disperazione”.

Lorenzo rivide Carla al terzo anno di seminario, in casa di amici. “L’incontro, disse ad un amico, lo aveva turbato molto perché aveva avuto la prova di quanto la ragazza avesse sofferto per causa sua”.

Negli ultimi giorni di vita don Milani espresse il desiderio di parlarle: ”E’ l’unica persona al mondo a cui ho fatto del male”.

Lei accettò l’invito. “Ora vi farò conoscere la mia fidanzata” disse allora ai suoi ragazzi.

Il giorno dei funerali Carla era fra la folla, i ragazzi di Barbiana la riconobbero e piansero con lei.

 

IL SEMINARIO

            Lorenzo Milani entrò in seminario,in quello di Cestello in Oltrarno,nel novembre  ‘43.

            I genitori erano assolutamente contrari, tutti.

“Abbiamo sofferto molto per quella scelta” disse la mamma nell’unica intervista concessa; “Io come agnostica e ebrea, e anche mio marito benché cattolico d’anagrafe, però non abbiamo fatto nulla per distogliere Lorenzo dal suo proposito. Lo conoscevamo bene, sapevamo che se aveva deciso per quella strada nessuno lo avrebbe potuto dissuadere”.

            Nessun parente fu presente alla sua consacrazione sacerdotale e la mamma anche se lo aiutò sempre con amore non accettò mai quella scelta.

 

LA GUERRA ED IL BATTESIMO PER LA SALVEZZA

 Il dottor Albano padre di Lorenzo era un uomo troppo intelligente e attento alle vicende politiche per non rendersi conto, con la moglie ebrea, di quale pericoloso meccanismo si fosse messo in moto con il nazismo. Discusse con la signora Alice della cosa, fece battezzare i tre ragazzi e si sposò in chiesa.

La tenuta di Gigliola faceva parte della parrocchia di San Pietro in Mercato e il vecchio sacerdote che stimava i Milani dei quali conosceva la grande dirittura morale e il profondo legame che univa i due coniugi dette l’aiuto richiesto  “ritoccando”  le date delle cerimonie sui registri parrocchiali, come, anni dopo, faranno altri parroci per salvare gli ebrei con una patente di arianesimo.

Il padre di Lorenzo rimase a Gigliola per sorvegliare la proprietà. Forse per la “soffiata” di qualcuno che voleva allontanarlo e saccheggiare al villa, fu accusato di detenzione di armi e rischiò la fucilazione. Conoscendo però il tedesco alla perfezione il dottor Milani riuscì a cavarsi d’impaccio.

            Lorenzo che venne a conoscenza del pericolo corso dal padre si precipitò  dal suo seminario in Firenze alla villa di famiglia nel paese di Montespertoli.

In questa bellissima campagna della provincia fiorentina padre e figlio vissero il passaggio della guerra e si ricongiunsero con la signora Alice e gli altri parenti  rimasti a Firenze subito dopo il passaggio del fronte.

 

CAPPELLANO A SAN DONATO

            Dopo tre mesi che aveva cantato Messa don Milani fu nominato cappellano a San Donato, una delle undici parrocchie di Calenzano.

            Proposto di San Donato era un vecchio sacerdote, alto e robusto di corporatura, brontolone ma buono come il pane appena tolto dal forno: Daniele Pugi.

            Don Milani diceva sempre di lui : “Mi ha voluto bene e mi ha tollerato con tanto affetto. Ne ha avuta di pazienza con me il mio babbo-proposto ! Speriamo che abbia lunga vita e lunga pazienza”. L’affettuosa stima era reciproca perché il vecchio conservatore diceva a sua volta: “La ‘un ci faccia caso a don Milani. Perché l’è un po’ in quella maniera ma gli è tanto bòno”.

            Arrivando a San Donato l’attenzione di don Lorenzo era stata subito calamitata da due problemi: il primo era che il popolo continuava a diminuire in Chiesa e l’altro che la religiosità popolare era povera di contenuti: tutta osservanza di regole esteriori e poco frutto di esigenze interiori. 

Raramente i fedeli avevano una fede che bruciava alta e chiara. In genere erano “lucignoli fumiganti” che entravano in Chiesa a prendere un po’ di Messa e che si avvicinavano al confessionale con uno spirito più da contribuente delle tasse che da cristiano (“I peccati bisogna confessarli e li confesserò ma, da me, il prete ne sente il meno possibile”)

Il vecchio don Pugi riusciva a vedere “un qualche residuo di fede” in quell’odore di moccolaia mentre don Milani era profondamente indignato:  ma come ?  ”doni di Dio” (cioè la Messa ed i Sacramenti)  vissuti in quella  “indifferenza pubblicamente ostentata” solo per obbedire a “una ferrea morta legge di tradizione ?”.

Si dava più importanza a piccolissime cose inventate dagli uomini come la sagra delle processioni e come i santini (appiccicati perfino nelle stalle) , che ai sacramenti “comandati da Dio” !

Una devozione del genere somigliava ai candelabri della pieve: “dorati solo nelle faccia che guarda il popolo e imbiancati da quella che guarda il Sacramento perché tanto di dietro nessuno li vede , fuorché  il sacrestano e Dio”.

Come nelle processioni quando Cristo sfilava tra due ali di folla “come al passaggio delle corse” , seguito da uno sparuto gruppo di fedeli e dalle giovani che si erano messe tutte eleganti per quel “ritrovo mondano” :  le famose “fedelissime delle feste, le fedelissime della processione, le fedelissime delle corse, le fedelissime del !° Maggio, le fedelissime del veglionissimo, le stesse che molto spesso mancavano alla Messa di Precetto”.

Certe cose facevano venire i brividi a don Lorenzo che era venuto lì,  a S. Donato,  con quella sua grande preparazione evangelica, con quella sua fede cristallina.

Nei primi anni a Calenzano don Lorenzo iniziò con i ragazzi un’interessante esperienza catechistica:

Il catechismo”, diceva,”non deve essere una cosa astratta, ma deve essere collegato alla storia vera”. Ed infatti il suo catechismo era la storia del popolo ebraico, seguita dalla storia di Gesù, seguita poi dalla storia della vita della Chiesa.

Si fece stampare in Germania un’antica carta della Palestina  e quando ne portò una copia alla cancelleria della Curia per avere il permesso di farla vedere ai suoi ragazzi in canonica ebbe questa assurda risposta: “Non vi abbiamo trovato niente che possa dirsi contrario alla dottrina cattolica. Non riteniamo tuttavia necessario né opportuno stamparla con l’Imprimatur della Reverendissima  Curia trattandosi di opera protestante, che viene ristampata per uso privato, come chiaramente risulta dalla testata”.

I primi anni di Calenzano furono molto difficili per don Lorenzo, per l’incomprensione dei giovani della parrocchia che non capivano quel pretino.

Don Milani aveva organizzato in canonica la scuola serale dicendosi che erano troppo ignoranti per capire.

Ignoranti un pochino va bene,  ma troppo no !

Da bestie si può diventare uomini e da uomini si può diventar santi. Ma da bestie santi d’un passo solo non si può diventare”.

La scuola era frequentata in prevalenza da contadini perché gli operai, avendo i turni in fabbrica, avevano meno tempo. Si teneva in tre stanze che davano sul cortile della propositura.

Don Milani diceva giustamente che uno che sa leggere la Gazzetta dello Sport non è detto che sappia leggere. La Gazzetta ha un suo vocabolario fatto di non più di duecento vocaboli e uno può arrivare con una certa facilità a leggere la Gazzetta dello Sport e ben capire fino agli ultimi particolari di quelle avventure sportive. Se c’è duecento vocaboli dentro, sono molti. Sono sempre gli stessi che ritornano, e saper leggere la Gazzetta non significa saper leggere.

 Saper leggere significa, a dir poco, intendere un giornale qualsiasi dalla prima all’ultima pagina.

Don Milani diceva che se si fosse trovato in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti non avrebbe potuto pensare di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola .

I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina per poche ore. E il loro agire è logico , obbligato, perfettamente sacerdotale.

Non poteva certo restare indifferente, come “evangelizzatore” nel suo bel paese toscano, di fronte al muro che l’ignoranza civile poneva tra la sua predicazione e i poveri.

 Si mise quindi di buon lena a far scuola.

Scuola non di religione, ma scuola e basta ”

Diceva : “Quando un giovane operaio o contadino ha raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa. Il problema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi”.

Si occuperà quindi di problemi come l’analfabetismo, la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro minorile, la crisi degli alloggi, la proprietà privata. Ma quelli, per lui, erano semplicemente ostacoli da prendere a calci in quanto gli ingombravano il cammino di predicatore di Dio.

La sua speranza era che i giovani di cui era maestro si accorgessero che le sue “mani consacrate hanno il potere di cancellare tutta una brutta vita passata e di indirizzare a un’altra tutta diversa”.

All’inizio nella parrocchia di S. Donato non si faceva solo scuola. Si perdeva tempo come nelle Casa del Popolo e nei ricreatori parrocchiali : calcio, ping-pong, pallavolo.

Ma a mano a mano che don Lorenzo Milani conquistava questi giovani, nella canonica si faceva sempre più scuola e sempre meno ricreazione.

“Lui non si era fatto certo prete per “organizzare ai giovani il modo di far l’ora di cena, cioè di passare il tempo, cioè di bestemmiare il tempo, dono prezioso che Dio passa e non torna. Pensava seriamente che chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni , deve piuttosto insegnare a tutti il volo”.

Una volta, nel 1965, bacchettò Pietro Ingrao incolpandolo di fare come i cattolici. Gli disse che i comunisti fanno le Case del Popolo per andarci a giocare a pallone, a biliardo, a carte, sviando i giovani dalla lotta contro le ingiustizie.

A S. Donato insomma tanti giovani atei e cattolici ad ascoltare il “suo” Vangelo fatto dello studio approfondito di ogni parola, del suo nascere, di cosa significava e come poteva essere usata nei vari campi del sapere. Erano le parole quello che mancava ai suoi giovani e lui doveva assolutamente fargliele conoscere.

Gli studenti con un certo livello di istruzione ed i professionisti del paese erano ammessi solo alle conferenze che si tenevano ogni venerdì ma dovevano rimanersene buoni e zitti in un cantuccio. Queste conferenze servivano per far acquistare sicurezza e disinvoltura a operai e contadini. Guai se uno studente cominciava a tener banco, lo scopo della scuola era finito.

Naturalmente quelli che avevano sempre fatto in sacrestia il bello e il cattivo tempo corsero in Curia;  e la strada la conoscevano bene! 

“Ma, Eminenza!  Sa che il nostro prete sta dalla parte dei comunisti ?”.

Perché chi sta dalla parte dei poveri deve essere automaticamente comunista, no ? “Bisogna mandarlo via!”.

A proposito dei comunisti va detto che uno come don Milani non poteva stare con le mani in mano a guardare quando c’era “qualcuno” che, promettendo “un po’ di lavoro, un po’ di casa, un po’ di aumento , un po’ di giustizia umana”, per queste quattro piccole cose, rubava la fede ai suoi figlioli ?  E se il “qualcuno” avesse almeno offerto una dottrina più bella della sua, quella dottrina che  “per secoli ha portato migliaia di giovani al martirio e al chiostro, sorridenti”.

“La dottrina del comunismo non vale nulla”, scriveva. “Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore di giovane.  Avesse almeno realizzazioni avvincenti.  Ma nulla.  Uomini insignificanti, un giornale infelice, una Russia che difenderla ci vuol coraggio”.

A scatenare però la classe delle persone per bene….., alleate con gli altri preti, fu proprio il fatto che don Lorenzo si era schierato dalla parte dei deboli, quei deboli che venivano senza alcuna esitazione etichettati come comunisti  dai cristiani all’acqua di rose della sua  S. Donato  e dai preti dei paesi vicini.

 

SPEDITO LASSU’ PERCHE’ SMETTESSE DI DAR NOIA

Giorgio Pelagatti aveva vent’anni ed era un operaio tessile quando arrivò a

S. Donato nel 1947  quel pretino che voleva far conosce un nuovo mondo ai giovani come lui.

Secondo Pelagatti il cardinale Della Costa sapeva bene che don Lorenzo era il miglior prete di Calenzano ma aveva solo due possibilità: o sbattere fuori gli altri preti o sbattere fuori lui.

            Don Renzo Rossi ha sempre detto che doveva andare lui a Barbiana a mezzo servizio.

Monsignor Tirapani, vicario della curia, gli disse che appena il priore don Torquato Mugnaini si fosse trasferito avrebbe preso il suo posto. Oltre che a Rossoio dov’era parroco da due anni la domenica Renzo Rossi avrebbe fatto servizio a Barbiana. Ma a metà novembre il vicario generale lo convocò di nuovo per dirgli che non era più necessario che si interessasse di Barbiana perché ci sarebbe andato don Milani.

Don Renzo si meravigliò della cosa e disse al monsignore che era strano che un prete come don Lorenzo dovesse fare il parroco “fisso” di una parrocchia con così poche anime dove, fino a pochi giorni prima, si pensava bastasse mandare lui la domenica a dire una messa.

Il porporato rispose che al momento non c’era nessun altro adatto al caso.

            Piccina e sperduta in mezzo ai boschi, sembrava un ideale “penitenziario ecclesiastico” per un prete tanto scomodo.

Invece sarà proprio dalla sofferta solitudine di quella montagna che il messaggio di Lorenzo Milano si diffonderà ovunque.

 

BARBIANA

            Una chiesina e dei casolari sparsi tra i campi e tra i boschi di castagni e di quercioli.

            Il 6 dicembre 1954 percorse il lungo sentiero sassoso dando il braccio alle due donne che non lo vollero perdere, la Eda e sua madre, la cara “nonna” , che cercava di riparare sotto l’ombrello contro una fitta e gelida pioggia che arrivava più violenta con le folate di vento.

            Barbiana mancava assolutamente dei servizi più elementari :  

Niente luce elettrica, niente telefono, niente acqua, niente strada.

L’unica strada transitabile si fermava qualche chilometro più in basso.

Si saliva alla chiesa per una specie di tratturo tra i boschi che si era formato col passaggio delle greggi e delle tregge, quei carri da montagna che hanno i pali al posto delle ruote per poter superare le asperità del terreno.

            Quando entrò in Chiesa don Lorenzo pregò a lungo e pianse.

            Pochi giorni dopo il suo arrivo a Barbiana andò a Vicchio per comprarsi un posto nel minuscolo cimitero della sua parrocchia dove oggi, infatti, è sepolto.

 

IL SUO APOSTOLATO

            Don Lorenzo Milani era fatto a modo suo: quando l’hanno confinato a Barbiana s’è messo subito a fare scuola ai figli dei contadini.  Questi ragazzi lui li passava tutti a comunione all’insaputa dei genitori per evitare che le famiglie spendessero i soldi per il ristorante per emulare i ricchi. Non avendo quella  povera gente la possibilità di fare banchetti sarebbero stati costretti a fare grossi sacrifici inutili.

            Nel suo insegnamento curava a fondo l’astronomia che era il suo pallino ed insegnava bene la lingua, la grammatica, la sintassi, la geometria, la fisica e la matematica. Niente latino: quello serve gli avvocati ed i dottori.

            Pensava e diceva sempre che Dio lo aveva mandato a Montespertoli , a Calenzano, a Barbiana per compiere la sua missione ed era lì che doveva svolgere ed intensificare il suo apostolato.

            Il paradosso è che in questa visione fideistica della missione di cui si sentiva investito, la spiritualità è rimasta un po’ secondaria.

Ed è questo chi gli hanno rimproverato sempre tanti sacerdoti come lui.

            Il suo quotidiano è sotto il segno del più esasperato materialismo pratico: insegna ai ragazzi a sciare per spostarsi in montagna, il nuoto come pratica necessaria per la sopravvivenza, le lingue e la geografia per imparare a disimpegnarsi all’estero nell’eventualità di un’immigrazione.

Durante le vacanze estive non li manda in pellegrinaggio a Lourdes o a Fatima ma a Londra o in Germania, per immergersi nel mondo del lavoro e soprattutto per confrontarsi con l’altro , con il diverso per la lingua ed etnia ma uguale per classe sociale.

A Livorno porta i ragazzi a scoprire i meccanismi di una nave e non pensa minimamente di portarli al vicino santuario di Montenero, come avrebbe fatto un “bravo parroco” di quell’epoca, quando non era infrequente far visita a Madonne piangenti.

            Disse di se stesso: “ in sette anni di scuola popolare non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche dottrina. E neanche mi sono preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato solo a non dir stupidaggini, a non lasciarle dire e a non perder tempo. Poi ho badato a edificare me stesso, a essere io come avrei voluto che diventassero loro. A avere io un pensiero impregnato di religione”.

            Secondo don Milani  “è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli….

Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguano pure i loro studi. Vadano all’università, arraffino diplomi ,facciano quattrini, assicurino gli specialisti che occorrono. Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora”.

Don Lorenzo era convinto della necessità di privilegiare la lingua in quanto strumento di comunicazione sociale : non si poteva conoscere, comunicare e lottare senza colmare questa profonda lacuna.

            Una idea su cosa era la sua scuola la possiamo avere anche soltanto rileggendo il paragrafo intitolato “La casa di Pierino” , quando descrive il contrasto fra la condizione di Pierino, figlio del dottore, e Gianni, figlio di un contadino, nel libro scritto con i suoi ragazzi  “Lettera ad una professoressa:

 

            “Il dottore e sua moglie sono gente in gamba. Leggono, viaggiano, ricevono gli amici, giocano col bambino, hanno tempo di stargli dietro, ci sanno fare. La casa è piena di libri e di cultura….. Pierino passa sempre o quasi senza studiare.

Io, Gianni, lotto a denti stretti e boccio.

A lui gli c’entra anche lo sport, l’Azione Cattolica o la Giovane Italia o la F.G. Comunista, la crisi puberale, l’anno delle malinconie, l’anno della ribellione.

A 18 anni ha meno equilibrio di quanto ne avevo io a 12. Ma passa sempre. Si laureerà a pieni voti. Farà l’assistente universitario gratis….. Pierino dunque diventerà professore. Troverà una moglie come lui. Tireranno su un Pierino a loro volta. Più Pierino che mai…. 

Se si prende da sola la mamma di Pierino non è una belva. E’ soltanto poco generosa. Ha chiuso gli occhi sui figlioli degli altri. Non ha proibito a Pierino di frequentare Pierini come lui. Lei stessa e il suo marito si circondano di intellettuali. Dunque non vogliono cambiare.

Le 31 mamme dei compagni di Pierino o non hanno tempo come lei o non lo sanno. Hanno lavori che rendono tanto poco che per viverci bisogna lavorare da piccini a vecchi, dall’alba alla notte.

Lei invece fino a 24 anni è stata a scuola. Fra l’altro ha avuto in casa una di quelle 31 mamme. La mamma di un Gianni che per fare le faccende a lei trascura il suo bambino.

Tutto il tempo che ora le avanza è un dono dei poveri o forse un furto dei signori.

Perché non lo spartisce ?

In conclusione la mamma di Pierino non è una belva né  innocente.

Ma sommando migliaia di piccoli egoismi come il suo si fa l’egoismo grande di una classe che vuol per sé la parte del leone.

Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione. Se occorresse cambiare tutto perché non cambi nulla non esiterà ad abbracciare il comunismo”.

 

Credevano di isolarlo mandandolo sul monte Giovi e lui ha continuato a fare quanto faceva a S. Donato.

Io il prete lo intendo solo così. E lo fo così. E mi devono tollerare. Tollerano i preti che commerciano i maiali e il vino e che tengono il bar, devono tollerare me che faccio scuola”.

            Era così pieno di attenzioni per la sua gente che, alla fine, s’era procurato una fiducia straordinaria. Se qualcuno stava male, i familiari correvano subito in canonica. E il priore si informava, indirizzava a questo o a quello specialista, accompagnava il malato di persona. Faceva venire regolarmente a Barbiana suo fratello Adriano,  pediatra e neuropsichiatra infantile, a visitare i bambini, per ognuno dei quali teneva una cartella clinica in un apposito schedario.

            La sua vita fu una testimonianza evangelica obiettiva.

Diceva di se stesso:

Non si riuscirà mai a trovare in me la più piccola disubbidienza proprio perché, prima di ogni altra cosa , mi premono i sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disobbedire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee”.

            Lorenzo Milani morì il lunedì 26 giugno 1967. Aveva dato disposizioni all’Eda su come vestirlo :  con i  paramenti sacri e gli scarponi da montagna.

            Sul suo testamento per i ragazzi sta scritto: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto a suo conto”.

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