Novembre 2011 PRESENTAZIONE DI UN PERSONAGGIO DEL PASSATO: ALCIDE DE GASPERI

notizia pubblica il 29/06/2012 - ultimo aggiornamento del 29/06/2012

Novembre  2011

PRESENTAZIONE DI UN PERSONAGGIO DEL PASSATO:

ALCIDE DE GASPERI

 


De Gasperi era un uomo che aveva fatto storia e del quale la storia avrebbe parlato a lungo. Fu sempre un uomo con una vita solitaria. Solo, da ragazzo, negli studi difficili e nei primi poveri guadagni, solo nel periodo di una battaglia di opposizione nel parlamento austriaco, solo perché quasi sempre il primo, perché fu sempre seguito e raramente accompagnato, ancora più abbandonato nei venti anni della sua vita pubblica, quando amici e conoscenti, o comunque gente che aveva le sue stesse responsabilità, lo sfuggivano. Autore solitario del proprio successo aveva affrontato decisioni gravi per il presente e per l’avvenire del paese quasi sempre in una estrema solitudine spirituale.

Dalla madre aveva attinto una decisa fortezza di carattere e una sensibilità profonda, umana e religiosa. Il suo cattolicesimo era quelle vecchio delle borgate trentine, un cattolicesimo sociale fermentato dalla “Rerum Novarum” e fatto delle cose più care che appartengono alla vita dell’uomo dalla nascita alla morte, dal focolare domestico alla voce del campanile.

Severa fu la sua predizione che la tirannia austro-ungarica sulle sue terre sarebbe finita perché anche lui come Goethe  pensava che “il debito dei tiranni poteva anche crescere perché verrà il giorno in cui le colpe dei singoli e quelle dei generali si sconteranno tutte in una volta”. Nel 1904 a Innsbruck era fra gli studenti bastonati ed imprigionati. Uno fra gli irredentisti più intransigenti pagò per tutti e De Gasperi, sprezzante di ogni ritorsione, espresse con risolutezza  la piena solidarietà a Battisti impiccato.

Fino alla vigilia della prima grande guerra Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, con animo avverso ma con la stessa volontà di rappresentare diritti ed interessi dell’italianità del Trentino, sedettero nel Parlamento austriaco. Battisti fu l’ultimo eroe del ghibellinismo e della rivoluzione risorgimentale. Finì come i martiri di Belfiore su una forca. De Gasperi, rappresentante delle correnti cattoliche, fu pure lui imprigionato per i suoi sentimenti italiani, ma non combatté l’Austria con le armi ed ebbe salva la vita.   De Gasperi fu eletto deputato nel 1911 con il successo dei cattolici in 7 collegi su 9, gli altri due essendo andati al socialista Cesare Battisti e al liberale Malfatti. Fu il più giovane membro del “Reichsrat” austriaco, avendo compiuto i trent’anni, minimo obbligatorio richiesto dalla legge, pochi giorni prima della votazione.  Nel suo primo discorso nell’aula di Montecitorio, “nel Parlamento” disse “della mia nazione e della mia lingua materna”  volle ricordare l’altro Parlamento, quello di Vienna,  “in cui ad un piccolo manipolo di deputati di una minoranza nazionale era commesso l’arduo compito di difendere non i diritti politici, ma i diritti all’esistenza di una nazione e di una stirpe

Nel novembre del 1922 rispose a Mussolini che nel famoso discorso del “bivacco” aveva mortificato la dignità del parlamento: “E’ un linguaggio - quello del duce -  che non può essere accolto perché è la svalutazione del supremo organo costituzionale dello Stato italiano e perché accumuna in un ingiusto e sommario giudizio uomini che hanno la coscienza di essere venuti qui a fare tutto il loro dovere di legittimi rappresentanti della nazione….. Noi non abbiamo qui la funzione di rappresentare l’universalità della Camera; ma per parte nostra teniamo ad affermare che oggi, come ieri, come domani, liberi da ogni viltà per la sollecitudine delle nostre persone che sono poca cosa, forti dell’assenso che ci viene da chi liberamente ci diede il mandato, lo eserciteremo con serenità ed equilibrio con la sola preoccupazione dei supremi interessi del paese.”

Egli andò con Amendola e De Cesarò dal re per cercare di strapparlo al fascismo , per tentare così di salvare l’Italia dal baratro verso cui si avviava. Mussolini naturalmente riseppe del passo compiuto dai tre “aventiniani” presso il Re e si vendicò facendo massacrare ed uccidere di bastonate Amendola nei pressi di Montecatini.  De Gasperi subì l’immediata soppressione del giornale “Nuovo Trentino”  di cui era direttore. Inoltre fu aggredito insieme al fratello Augusto nella casa della moglie da una squadraccia di fascisti. Non si fece intimidire dalle loro minacce e dagli sputi che ricevette sul viso, reagì con fierezza ma se la cavò solo perché intervenne l’on. Marzotto, deputato fascista molto autorevole nella zona che lo  fece arrivare fino a Milano dove fu aiutato e salvato dall’ onorevole Baranzini.

Visse vari mesi sotto falso nome, spacciandoci come un Carlo Rossi, tirando avanti in grandi ristrettezze, facendo il traduttore di libri dal tedesco. Si consumò gli occhi che infatti ne risentirono gravemente per quel lavoro  faticoso e malpagato.

De Gasperi fu poi arrestato, insieme alla moglie, alla stazione di Firenze, l’11 marzo 1927 e subito trasferito dalle carceri fiorentine a quelle romane, lui a Regina Coeli, lei alle Mantellate. Al cognato alcuni giorni dopo diceva: “io sono tranquillo e sereno come si può essere dinnanzi ad una sventura immeritata. Solo il pensiero che mia moglie è in carcere scuote talvolta la serenità della mia calma ….Qualunque cosa intraprendiate pensate anzitutto a Francesca, la mia bravissima compagna che mi ha seguito perfino in carcere”. “Il carcere è un’umiliazione che arroventa l’anima. Quand’ero giovane, nelle carceri di Innsbruck, dove fui rinchiuso per motivi irredentistici, potevo assumere la posa di chi mostra un risentito ardimento per le battaglie della patria; ma il sentirsi reietto proprio in questa patria sospirata è troppo grave; e ne deriva un senso nostalgico di silenzio e pace”. La condanna a quattro anni inflittagli dal tribunale di Roma fu una sorpresa. L’uomo giusto, che sapeva di non essere colpevole di nulla, rimase stupefatto dall’incredibile sentenza. Alla moglie scrisse dalle carceri romane: “Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione, come dilettanti, ed altri che la considerano, e tale è per loro, come un accessorio di secondarissima importanza. Ma per me, fin da ragazzo, era la mia carriera o meglio la mia missione”.

Per l’italianità aveva patito il carcere in Austria, e ora anche l’Italia lo ripagava con una carcerazione ingiusta e avvilente.

Quando era in carcere il vecchio padre di De Gasperi, l’ottantenne Amedeo, ebbe un attacco cardiaco. I figli e le nuore lo avevano tenuto all’oscuro della sorte del figlio Alcide che chiese ed ottenne di visitare il padre. I carabinieri lo scortarono fin sulla soglia della sua casa di Trento e solo qui gli tolsero le manette. Amedeo non si accorse di nulla e abbracciò racconsolato il suo primogenito il quale, disse,  doveva subito ripartire per urgenti impegni a Roma.  In fondo alla scala gli rimisero le manette e lo ricondussero alla capitale.

De Gasperi fu graziato dal Re in occasione della cerimonia dell’inaugurazione a Trento di un monumento per intercessione dell’arcivescovo monsignor Endrici.

Ritornò a rovinarsi gli occhi con traduzioni dal tedesco e finalmente ebbe la fortuna di essere chiamato come “schedarista” alla Biblioteca Vaticana per intercessione del conte Della Torre.  Monsignor Tisserant , prefetto della biblioteca, prese a stimarlo e lo fece assumere in pianta stabile.

Un giorno De Vecchi, ambasciatore presso la Santa Sede, protestò presso Pio XI per l’ospitalità che veniva accordata a De Gasperi. Il Papa non aveva mai visto il suo protetto e rispose tranquillamente: “E’ mio dovere di cristiano far guadagnare un  tozzo di pane a chi non potrebbe procurarselo altrimenti”.

Passarono tanti anni, la polizia addolcì la sorveglianza su quell’uomo taciturno che – sembrava – rassegnato al suo destino di sopravvissuto, assorto esclusivamente nei libri e nella famiglia.

Il 26 luglio 1943 De Gasperi abbandonò la Biblioteca Vaticana e fu subito membro del Comitato di liberazione nazionale come rappresentante del suo partito.

A lui Gabriele De Rosa, tracciando le due vite parallele di don Sturzo e De Gasperi, dà questo riconoscimento: “seppe condurre con mano sicura ma con geniale duttilità politica un paese, che aveva vissuto per venti anni nella dittatura fascista, che si era nutrito di retorica nazionalistica e di miti autarchici, a vivere nella democrazia e per la democrazia fu un’impresa storica, che colloca lo statista trentino fra i grandi protagonisti della nostra storia contemporanea”. “De Gasperi non cercò mai la facile popolarità. Egli seppe conquistarsi il consenso della parte maggioritaria del Paese attraverso la sua capacità di compiere scelte difficili per il bene comune, al di fuori di ogni retorica”.

Anche di fronte alla Chiesa, pur con spirito di obbedienza e di devozione egli restò un uomo libero e seppe distinguere le responsabilità terrene da quelle spirituali e pur giudicando le prime conservò fiducia rispetto e fede nelle seconde. La sua tradizione familiare, il corso di formazione di un uomo politico e di uomo di governo hanno maturato in lui  “la convinzione che senza la fede e senza la morale evangelica le nazioni non si salvano, siano o non siano socialiste”. Per le minoranze nessun timore: piena libertà, piena eguaglianza, piena garanzia, perché  “tollerante è e deve essere chi crede”. A proposito della sua decisa posizione di perfetto laico nei confronti del papato va ricordato come si sentì profondamente umiliato per la mancata udienza che aveva chiesto e che il Papa non gli concesse e infine fu molto addolorato anche quando non ricevette dallo stesso Pontefice gli auguri per il suo settantesimo compleanno.

Era un uomo con una oratoria politica che conquistava la folla. Lo stile scarno, forse asintattico come lo rimproverava il toscano Gronchi, ma rude e che bene esprimeva la fortezza trentina, una soffusa tonalità di sentimento propria dei caratteri solitari che conoscono la limpidezza della vetta;  i suoi discorsi conquistavano la piazza, la facevano sensibile alla sua serrata argomentazione politica come alla sua intensa palpitazione morale. Anche la soggezione, che dava l’altezza spirituale di quell’uomo, gli avvicinava la gente: donava fiducia, convinceva e scavava nell’anima. Pure in Parlamento, durante sedute accese e tumultuose, si imponeva la sua parola seria ed essenziale, non forbita ma vera, tutta cose e volontà, con autorevolezza sicura ma senza alterigia, senza furberia avvocatesca e senza pesantezza professionale. Quella sua personale cortesia, che era poi profondo rispetto degli altri, ed era propria dei gentiluomini della sua generazione, lo avvantaggiava nel rapporto umano. L’arte politica, egli diceva, consiste nella scelta dei tempi e dei modi per raggiungere il fine. Egli fu maestro di progressismo e gradualismo metodico che si fonda sulla storicità della politica. Per De Gasperi, il centrismo significava anzitutto unità, unità dell’organismo sociale e politico. Una unità che non nega la differenziazione e la complessità: quindi non è uniformità, ma interesse superiore, equilibrio di forze, coordinamento dinamico, convergenza di volontà.

La tensione con l’estrema sinistra era inevitabile ma l’uomo non perdeva mai la sua calma misurata ed una volta quando l’irruento “enfant terrible”  Pajetta gli aveva gridato in aula “sei un assassino”, portandosi fin sotto il banco del governo, alzando per un attimo gli occhiali sulla fronte, secondo un gesto che gli era abituale, e guardandolo in faccia il vecchio uomo politico trentino lo azzittì dicendogli calmo: “giovanotto, cominci col darmi del lei”. 

La vera ragione – spiegò una volta De Gasperi – della avversione nei miei confronti espressa in forma così aspra dalle labbra giuridiche dell’onorevole Terracini, con espressioni proprie da Vecchio Testamento, è che io ho silurato l’operazione balcanica che volevano fare anche in Italia, ho scoperto prima , ho impedito poi, con forza, nel momento critico, il tentativo di una dittatura bolscevica nel nostro paese”.

Benedetto Croce in una lettera del 1949 scriveva al nostro: ”Mio caro De Gasperi, io penso spesso a te, non politicamente ma umanamente e mi fò presente la vita che sei costretto a condurre e ti ammiro e ti compiango e ti difendo contro la gente di poca fantasia che non pensa alle difficoltà e alle amarezze che è necessario sostenere ad un uomo responsabile di un alto ufficio per fare un po’ di bene e per evitare un po’ di male”.

La spiritualità di De Gasperi è riflessa nella sua opera politica, in un’unità cristiana della vita che fu per lui metodo e credo, ispirazione e volontà. Non momenti divisi e contrapposti , il religioso ed il politico, ma intrecciati assieme nell’interiorità dell’uomo da una fede che era dialogo intimo con Dio, ma anche azione d’amore, silenzioso servizio. Secondo lui dirsi cristiani nel settore dell’attività pubblica non significava aver il diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implicava il dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare da un profondo senso di fraternità civica, di moralità sociale e di giustizia verso i più deboli ed i più poveri.

Un’altra fonte della spiritualità degasperiana sono i foglietti di suor Lucia, la diletta figlia suora dell’Assunzione, raccolti con amore e pubblicati una quindicina d’anni dopo la morte del marito dalla signora De Gasperi.  “Nostro padre – scrive l’altra figlia Maria Romana, sorella di quella suora, – navigava giorno e notte nella tempesta e per anni tu sei stata la sua piccola lampada. In silenzio dalla tua cella gli mandavi le tue meditazioni , cercavi nei libri di preghiera un pensiero per lui …. Le crisi politiche, il difficile equilibrio del governare, le decisioni internazionali, gli scontri tra i partiti, tutto passava tra te e nostro padre in una tonalità più alta, in una visione prospettica dove l’uomo conservava il suo posto ma illuminato e chiarito dalle ragioni dello spirito”.

Quando si domanda a qualche membro influente della democrazia cristiana chi sono i suoi uomini più in vista, ci si sente quasi immancabilmente fare i nomi di Fanfani, Dossetti, Piccioni, Aldisio, Jacini, Meda, Scelba, Moro. “E De Gasperi ?”. “De Gasperi, si intende. Ma lui è al di sopra del partito, è un’altra cosa”. E’ vero: De Gasperi è un’altra cosa, è quasi un partito per conto suo, e molti voti del 18 aprile, infatti, sono andati più al partito “per conto suo” che alla democrazia cristiana.

Disse una volta De Gasperi ad un amico : “Mi dicono abile e manovriero. Non è sempre un complimento. Preferirei vedessero in me un uomo di fede”.

Aveva una spiccata capacità di capire il valore degli uomini e di conquistarli a lavorare con entusiasmo con lui. De Gasperi per esempio non capiva molto di economia ma seppe sempre tenere stretti a se uomini con Luigi Einaudi  e Giovanni Malagodi che giudicava bravissimi in quella materia, senza dare alcun peso alle loro posizioni politiche ed ai loro interessi del tutto diversi dai suoi.

Mai le condizioni economiche della famiglia di De Gasperi furono floride. Da giovane aveva sofferto la fame e il freddo quando all’Università di Vienna doveva guadagnarsi il denaro per vivere e trovava anche il tempo per aiutare la gente del suo Trentino che veniva in Austria a lavorare nei campi o nelle segherie di montagna con grande fatica e poco guadagno.

Per capire la sua vita di intellettuale in gravi ristrettezze anche nella maturità basta leggere la  risposta ad una lettera di don Sturzo del 26 ottobre 1945:  “Ho ricevuto due pacchi, uno inviato col tuo nome, uno con quello di Collin. Ringrazio vivissivamente per le due maglie, giacché ero male in arnese”. E  ancor prima gli aveva scritto: “se tu usi il caffè vedi portarmene da costì, perché qui è ancora prezioso”. Nel 1946, davanti al tribunale dei ventuno vincitori della seconda guerra mondiale era vestito di scuro con il cappotto prestatogli da un amico di partito !

Pronuncia a Parigi la difesa dell’Italia vinta imponendosi personalmente al rispetto delle nazioni vincitrici per la sua nota fierezza. L’inizio del suo discorso è noto a tutti : “ Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia è contro di me; è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come imputato e l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni, in una lunga e faticosa elaborazione….. Signori è vero, ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese di parlare come italiano, ma sento il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie  di Mazzini, le concezioni universalistiche del Cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi avete il compito di stabilire. Ebbene, permettete che vi dica colla franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest’ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è nei confronti dell’Italia estremamente duro …..

La fine del discorso di De Gasperi fu accolta in gelato silenzio.

Quando lascia il rostro – scriverà Byrnes, segretario di Stato americano, nelle sue memorie – per tornare al posto assegnatogli nell’ultima fila scende la navata centrale della sala silenziosa, passando accanto a molte persone che lo conoscono. Nessuno gli parla. La cosa mi fa impressione, mi sembra inutilmente crudele.” Così quando arriva davanti alla delegazione americana lo stesso Byres si alza e gli stende la mano: “Voglio fare coraggio a quest’uomo che ha personalmente sofferto nelle mani di Mussolini ed ora sta soffrendo nelle mani delle nostre nazioni alleate”.

Gli anni del suo lungo governo furono per De Gasperi anni difficili, pieni anche di amarezze e delusioni. Egli sentiva attorno a sé il consenso del paese, dell’opinione nazionale , ma anche l’irrequietudine di una classe politica che non riusciva a tenere il suo passo tenace e costante. “Non riescono – diceva – a dominare gli istinti deteriori. Mi pare davvero di essere solo, abbandonato”.

Nell’ultimo congresso, quello di Napoli del 1954, lasciò agli iscritti alla democrazia cristiana il suo testamento politico e fissare l’arduo confine tra fede e politica. Raccomandò caldamente l’unità nel partito, l’unità che sappiamo bene non fu poi mantenuta.

Nessun dubbio – disse – che nella sfera che è della Chiesa la nostra adesione è piena, sincera. Tale sentimento si estende anche alle direttive morali e sociali contenute nei documenti pontifici che quasi quotidianamente hanno alimentato e formato la nostra vocazione alla via pubblica ….. ma è anche vero che per operare nel campo sociale e politico non bastano né la fede né la virtù. Conviene creare e alimentare uno strumento adatto ai tempi, un partito, un metodo proprio, una responsabilità autonoma, una fattura e una gestione democratica”.

 “Solo se siamo uniti” disse “siamo forti, se siamo forti siamo liberi e solo se siamo liberi di agire possiamo sviluppare il nostro piano di rinnovamento, convogliare le forze costruttive della nazione, scegliere i nostri compagni di viaggio per libera volontà, per affinità di tendenza, per comunanza di programmi di azione , per una comune associazione di interessi, per una comune visione di riforme. Se siamo divisi o indeboliti dalle nostre discordie diventiamo schiavi della situazione parlamentare. Non sarà più il nostro pensiero programmatico che creerà congruenze e convergenze, ma sarà la situazione parlamentare, la ferrea necessità di avere un governo che ci costringerà a qualunque coalizione, senza condizioni ….. Con ciò anche il partito rischia di perdere la fiamma dei suoi ideali, né può alimentare la speranza dei giovani ; e diventa una macchina elettorale che arrugginisce”.  

Noi siamo già sull’orlo di questo destino perché non siamo più uniti fra noi come anni fa”.

Passate le consegne del partito in altre mani, in più giovani mani, volle ritornare nel suo Trentino, tra le sue montagne, volle tornarvi ad ogni costo, superando le perplessità dei medici, per respirarvi l’aria dell’amata Valsugana.

Da Sella scrisse ancora a Fanfani per un estremo consiglio politico: “teniamolo a mente, bisogna non lasciarsi avvinghiare dalle spire dell’alternativa tradizionale guelfo-ghibellina, bisogna non lasciarsi rinchiudere in quello storico steccato politico: ….. forse un giorno, quando sarò meno stanco, ti racconterò gli episodi della mia esperienza”.

Ma nella sua casetta di montagna volle soprattutto ritrovare la sua famiglia. Scrive Maria Romana nel suo ultimo libro, una specie di lettera aperta sulla sua spiritualità, sulla sua pietà : “Mio caro padre, l’intensità spirituale del tuo animo non dava a noi nessun senso di peso o di obbligo per quanto ci riguardasse personalmente. Né disturbava quella confidenza e familiarità che sapevi creare tra il tuo essere grande ed il nostro mondo di gente normale. La tua strada era la semplicità, come si riscontra sempre negli uomini seri, negli uomini che valgono. E nella tua semplicità di cittadino qualunque, di padre e di marito sei ritornato per noi, per pochi giorni, i tuoi ultimi, a Sella di Valsugana”.

Fece qualche breve passeggiata nei prati che circondavano la villetta e nella notte fra il 18 e 19 agosto una crisi cardiaca gli troncò la vita risparmiandogli la più penosa fine per uremia che si stava avviando.

Venissi interrogato in un eventuale processo di beatificazione – dichiarò in quei giorni il cardinale Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXII – la mia testimonianza sarebbe assolutamente favorevole a riconoscere le virtù dello statista, ispirato da una visione biblica del servizio di Dio, della Chiesa e della Patria”.

 

 

Link diretti
 
Copyright 2011 Casa Culturale s.c.r.l.
Piazza Pizzigoni, 5 - 56028 San Miniato Basso (PI)
sito realizzato da Navigalibero