LUGLIO 2012 GUCCINI DIZIONARIO DELLE COSE PERDUTE

notizia pubblica il 29/06/2012 - ultimo aggiornamento del 14/07/2012

 

LUGLIO  2012

 

GUCCINI

DIZIONARIO DELLE COSE PERDUTE

 

di  Francesco GUCCINI

(LIBELLULE   MONDADORI)

 

Sotto l’ombrellone al mare o al fresco sotto un albero in giardino questo mese abbiamo scelto per la lettura un divertente libretto di Guccini sul nostro passato: oggetti, situazioni, sapori che tornano a cantare.

 

LA BANANA

Noi siamo quelli della banana.

Abbiamo, miracolosamente, e di poco, evitato le fasce, quel sistema ignobile di costrizione che voleva tutti gli infanti trasformati in mummie egizie, ma l’infame banana no, non siamo riusciti ad evitarla.

Appena nati, innocenti, incolpevoli, hanno preso i nostri primi e scarsi capelli e li hanno foggiati in modo che, sulla fronte, emergesse un ricciolone enorme e cavo, un vezzo al quale in nessun modo potevamo ribellarci, una specie di grottesco cannolo che sovrastava i nostri occhi, da poco spalancati sul mondo. Non solo ai maschi è stata imposta tale umiliazione, ma anche alle femmine toccò questa triste sorte – in più, per loro, con l’aggravante di un lezioso fiocchetto, una piccola farfalletta di stoffa a coronamento del tutto. Poi, non paghi, ci hanno fotografato !

IL CHEWING-GUM

Insieme alle cioccolate e le multicolori caramelle con buco foggiate a ciambella di salvataggio i G.I. statunitensi gettavano ai ragazzini misteriosi pacchettini oblunghi; una volta scartati, questi rivelavano delle tavolettine anch’esse oblunghe e odorose. Caramelle americane ? Forse. Ma che fare di quelle strane caramelle ? Via lesti in bocca. Però, mastica mastica, quella caramella perdeva sapore e non si scioglieva, e fu quindi rapidamente inghiottita.

Ma bando alle ciance: finita la guerra finito il chewing-gum ? No, ovviamente, perché l’ondata masticatoria  non accennava a diminuire e uscirono italianissimi prodotti, chiamati ben presto “cingomma”, o “cicca”, o in altre cento regionali varianti.

Uscirono però quasi subito forme più umane di gomme, alcune delle quali contenenti la figurina di un famoso ciclista o di un noto calciatore. Ma il vero colpo fu l’invenzione della bubble-gum, la gomma che faceva i palloni. Tu masticavi,  masticavi e poi, saggiata fra lingua e denti la giusta consistenza, soffiavi tenue fio ad ottenere la fuoriuscita, fra le labbra, di un palloncino che i più abili riuscivano a forgiare di notevoli dimensioni. Scoppiava anche con un caratteristico e sonoro ciac, che, ripetuto più volte, era utilissimo a far girare le scatole a un vicino adulto.

LA SIRINGA

Nel dopoguerra arrivò anche da noi, venduta in farmacia, la penicillina.

La portentosa scoperta di Alexander Fleming (premio Nobel nel 1945) recò alla portata di tutti l’antibiotico battericida come rivoluzionario metodo di cura.

La magica medicina era allora contenuta sotto forma di polvere in boccettine di vetro, con tappo di gomma protetto da un coperchio di stagnola. Si levava la protezione e si infilava l’ago di una siringa attraverso la gomma per iniettare una dose di acqua distillata: Si agitava, si aspirava e la portentosa cura era pronta. La penicillina c’è ancora. Sono le siringhe di quel tempo che, per fortuna, non ci sono più.

Erano di vetro, grosse, e l’ago era di ferro, credo. Dovevano, prima di ogni uso, essere sterilizzate: messe dentro un’apposita scatoletta di alluminio, venivano fatte bollire ed erano così idonee per l’utilizzo.

Adesso ci sono le siringhe monouso: le scarti ed eccole pronte, senza farle bollire. E ci sono gli aghi indolori, probabilmente dell’acciaio più fino, cesellati a mano da raffinati artigiani orafi. Vedi, nella pubblicità, una vispa frugoletta che si volta felice e mormora: “Già fatto ?”. Allora, invece, uno se ne accorgeva, se l’iniezione era fatta o meno !

I CANTASTORIE DI PIAZZA

“Una volta” dicevano “eravamo noi a portare le notizie: non c’era la televisione e la radio ce l’avevano in pochi. Eravamo noi a girare le piazze e a raccontare tutto quello che succedeva in Italia e nel mondo”.

Una dichiarazione un po’ partigiana, ma in una certa misura vera. Giravano le piazze, sì, i mercanti, spesso avversi alle autorità che non le vedevano di buon occhio, ostili in genere agli ambulanti, temendo magari qualche dichiarazione, soprattutto durante il fascismo, non del tutto consona al potere.

Quando si era radunata abbastanza gente, dicevo, i cantastorie cominciavano ad imbonire, cioè a fare in modo, a chiacchiere, che la gente comperasse la merce che vendevano o i fogli volanti. Prendevano un fatto e lo cantavano, fermandosi a spiegare, a commentare, cercando di commuovere, giocando sull’elemento emotivo. Le musiche erano due o tre, sempre le stesse, in modo che fosse facile, per chi acquistava il foglio, ricantare il fatto una volta tornato a casa. Di solito era in quartine di decasillabi.

Questi fatti rimanevano nella memoria popolare come se fossero dei canti della tradizione orale, e venivano cantati anche anni dopo che l’avvenimento, vero o falso che fosse, era stato raccontato, mentre il ruolo avuto dai cantastorie veniva del tutto dimenticato.

IL FLIT

Quando si nomina il Flit quasi tutti (quelli di una certa età) rimangono un attimo perplessi, poi sorridono e con le mani si accingono a pistonare un’immaginaria pompetta dicendo: “Ma sì, il Flit. Ma cos’era, un’insetticida ?”.

Veniva fornito con l’apposita pompetta: questa, un tubo di metallo lungo una ventina di centimetri, terminava con una manopola di legno che muoveva  uno stantuffo situato all’interno. Tirando indietro la manopola, lo stantuffo aspirava l’aria e, spingendola, questa veniva soffiata con forza sui vapori che fuoriuscivano da un apposito contenitore del liquido posto all’estremità. Alla base del tubo un foro serviva per lubrificare il meccanismo.

Un uso curioso del Flit mi è stato raccontato da anziani frequentatori delle case chiuse. Ogni tanto la maitresse cercava di convincere gli avventori che al posto di, diciamo, consumare, se ne stavano bellamente seduti a “far franella”, cioè oziavano nella, non so come chiamarla, sala  d’aspetto. La signora prendeva la pompetta e irrorava gli oziosi gridando, spudorata: “Ragazzi, in camera !”.

LA MAGLIA DI LANA

Quanti, nella vita, hanno indossato le maglie di lana ?

Ma io qui non parlo delle maglie industriali fatte di lana morbida, carezzevole, impalpabile, che ti avvolge come seta e dà conforto e calore, io parlo (e al ricordo rabbrividisco) delle tragiche maglie di lana fatte in casa.

Eppure erano mani di solerti avole o di madri amorose quelle che, impugnati i ferri da calza e una matassa di lana di pecora, cominciavano alacremente a sferruzzare pensando, con affetto : “quest’inverno il mio bambino non patirà il freddo, avrà  la maglia di lana che gli sto confezionando, come un usbergo lo proteggerà dai rigori del gelo e gli risparmierà raffreddori e ben più gravi, Dio non voglia, malanni”, e giù un’altro giro di maglia.

La maglia di lana casalinga “bucava”, dicevamo, ma quel verbo era solo leggera metafora della sofferenza generale che ci era imposta, perché non solo bucava, ma anche cagionava prurito, pungeva, scorticava. Giorno e notte, notte e giorno. Passavi il tuo tempo a tentare di staccarla dalla pelle, a schiacciarcela contro, a grattarti.

Chi ha portato le maglie di lana casalinghe ricorderà anche, con un sussulto d’angoscia, i costumi da bagno di lana, fatti sempre a mano.

LE TARGHE

In certi negozi, dopo la guerra, si trovavano inchiodate al bancone delle targhette metalliche. Una di queste diceva : La persona civile non sputa in terra e non bestemmia.

Ma che gente c’era ?

IL CARBONE

L’estate, oltre a tante belle cose, è purtroppo il tragico periodo delle grigliate.

Di solito al sabato sera o alla domenica a mezzogiorno, nei boschi o sulle spiaggette dei laghi, sui terrazzi o nei cortili di casa, si innalzano fumi minacciosi quasi a ricordare l’immortale verso de grande (si fa per dire) poeta bolognese Claudio Achillini: “Sudate, o fochi, a preparar metalli …..”, anche se non metalli ma fette di carne dal dubbio aspetto, sfrigolanti salcicce e misteriose porzioni di gallinacei vengono messe  sulle graticole e, dopo aver ammorbato l’aria intorno, sono servite dal grigliatore di turno (che passa, nell’aspetto, dal felice speranzoso al molto serio preoccupato) ai poveri partecipanti al rito, in parte semicrude e in parte carbonizzate.

E’ che cuocere alla griglia è un’arte, e non si improvvisa.

Una volta il carbone di legna, o carbonella, era usatissimo, non tanto per le grigliate (che non si facevano) ma per la cucina, prima dell’avvento domestico del gas, e si dice che il ragù alla bolognese non sia più lo stesso se non viene cotto con lentezza tipica del fornello a carbone, che impiegava anche cinque o sei ore a tirarlo come si deve.

A fare il carbone di legna erano i carbonai. Fra gli altri, carbonai specializzati erano i boscaioli della montagna pistoiese.

Si riunivano in compagnie di circa dieci elementi e si mettevano al servizio delle ditte. Per Santa Maria (15 agosto) si formavano le compagnie; per San Michele (29 settembre), dopo una cena con colossale mangiata e bevuta (sarebbe stata l’ultima per lungo tempo), partivano e tornavano a giugno. Andavano dove c’erano boschi fitti e legna adatta da tagliare: in Maremma, ma anche in Sardegna, in Corsica,a volte fino in Calabria.

Il taglio del bosco e la costruzione della carbonaia richiedevano giorni di lavoro, e altri erano spesi per sorvegliare che la legna si trasformasse in carbone vegetale a combustione lenta: doveva “cuocere” , dicevano, non bruciare. La carbonaia era una montagnola conica con un camino centrale e altri cunicoli di sfogo laterali per controllare e regolare il tiraggio dell’aria, coperta da zolle di terra, le “pellicce”, che fungevano da isolante. Pronto che era il carbone, si doveva prima farlo raffreddare e poi insaccarlo e portarlo a spalla (rare volte con i muli) al posto di raccolta.

 

 

 

IL LATTAIO E LA CARTA MOSCHICIDA

Adesso ci sono i cartoni di latte, confezionati da diverse ditte concorrenti, ma prima dei cartoni cosa c’era ? C’erano le bottiglie coperte con un tenue tappo di tagnola, vendute e distribuite dalle cittadina Centrale del Latte. Ma prima ancora dele bottiglie cosa c’era ?

C’era il lattaio. Nel suo negozio, dove si vendevano anche formaggi, marmellate, caramelle e affini. Uno andava con la bottiglia e acquistava il latte, un litro o mezzo litro alla volta. Il lattaio tuffava il misurino in un grande contenitore e versava la quantità desiderata.

Ma c’era anche il lattaio che caricava un grande bidone sula bicicletta e faceva il giro dei clienti. Al suono del suo campanello si scendeva in strada, armati di pentolino, e lui, col misurino, accontentava le richieste. Inevitabili le facezie delle massaie su quanto il lattaio avesse annacquato il prodotto.

Bisognava rigorosamente bollirlo, e, annacquato o meno, si formava sempre sulla superficie, a fine bollitura, un discreto strato di panna. Da raccogliere con un cucchiaio e mangiare subito dopo una leggera spolverata di zucchero.

Le mosche non ti lasciavano vivere. Basta una a dare infinita noia, ma erano centinaia, si posavano su ogni cosa, sulle vivande sparse in tavola, sulle mani, sul viso, le scacciavi e tornavano imperterrite a ronzarti attorno. Una condanna.

Non bastava il DDT, né certe spatolette che, usate da abili mani, le inchiodavano là dove si posavano. Una, due, cinque, ma le altre ? E poi che schifo, sulla tavola, mentre mangiavi. Va bè che all’epoca si era meno schizzinosi di adesso, ma insomma !

C’era allora la carta moschicida, Contenuta in un cilindretto di in paio di centimetri, la srotolavi e scendeva a spirale da dove la fissavi, di solito al lampadarietto che pendeva sul tavolo. Era carta gommosa, viscida e appiccicosa di una sostanza che attirava l’odiato insetto dei Ditteri che, svolazzando qua e là, era attratto dall’odore di quella misteriosa sostanza e vi rimaneva inchiodato, finendo, appena ronzando in un inutile e frenetico sbattere di alucce, la sua breve e noiosa vita.

Prima una vittima, poi cinque, poi cento, perché la carta non veniva sostituita subito, ma si lasciava là, appesa fino alla fine, fino a compiere tutta la sua missione di giustiziere. Faceva un po’ ribrezzo, lo ammetto, quella striscia brulicante di piccoli cadaveri neri, ma che liberazione, che gioia !

I GIOCHI

Ma siamo sicuri che le Playstation o i vari giochi elettronici manovrati con stupefacente abilità dai bambini contemporanei siano superiori ai giochi che praticavano i ragazzi di una volta, giochi, ahimè, scomparsi e lasciati in un passato non tanto, poi, così remoto ?

Naturalmente non parlerò di tutti i giochi di allora, che erano centinaia, tipo palla avvelenata, palla prigioniera o i quattro cantoni, un due tre fante cavallo e re, nascondino o l’ambiguo ed eccitante gioco del dottore. Non parlerò nemmeno dei giochi femminili tipo “o quante belle figlie, Madama Dorè” o “passa e ripassa la bella pecorina quando cammina la fa bee bee”, guardati allora con sospetto e disprezzo dal maschio e adesso tralasciati per mia ignoranza delle regole.

Questi di seguito, invece, sono in piccola parte i giochi virili che una volta andavano per la maggiore :

Il chioccaballe

 Si prendeva un ramo dritto di sambuco di un dieci centimetri, si eliminava il midollo e si otteneva così una specie di cerbottana e si masticava della stoppa per farne proiettili.

I coperchini

 Semplici tappi a corona di bibite detti anche tappini. Ci scatenavamo in battaglie campali, soprattutto tra i filari di fagioli mentre i sacchi di grano ammucchiati l’uno sull’altro nel mulino dei nonni si trasformavano in Rocky Mountains o Black Hills pronte ad ospitare  ostili indiani Apache. Ma il trionfo del coperchino era il Giro d’Italia con le tappe che si svolgevano sui marciapiedi delle case nelle quali abitavamo e se usciva dal marciapiede voleva dire che aveva forato e doveva tornare da dove era partito.

Le palline

Come per i coperchini, ognuno di noi aveva una discreta dotazione di palline di terracotta, più qualcuna, rara e preziosa, di vetro.

La fionda

Per costruirla bastava un robusto rametto foggiato a forcella. Più difficile trovare gli altri elementi, ma un pezzetto di cuoio e due elastici ricavati spesso da una vecchia camera d’aria di bicicletta, in fondo, si trovavano sempre.

La cerbottana

E’ stata il gioco principe, che coinvolgeva bande di ragazini a volte anche di strade confinanti, quindi acerrimi nemici, in sfide selvagge.

I cariolini

Occorrevano: una piattaforma rettangolare di legno, e due assi di legno che finivano arrotondate per inserirvi le ruote, anch’esse di legno. Chi aveva a disposizione solo strade in piano doveva aggiungere una corda e un amico che si prestasse a tirare, fino al grido inevitabile: “Adesso tocca a me”.

Il carro armato

Era facile da costruire. Bastava avere un rocchetto di filo da cucire; senza filo, ovviamente, ma spesso, nell’ansia della costruzione, ci pensavamo noi , a renderlo privo. Con un coltellino poi si praticavano tacche sulle due parti curve sporgenti, facendole diventare ruote dentate. Si inseriva nel foro del rocchetto un elastico, un capo del quale veniva fissato su un lato da un pezzetto di legno retto da due chiodini. Dall’altro, si infilava un bastoncino che serviva a tendere l’elastico stesso allo spasimo trasformandolo in una molla. Poggiata la macchina su una superficie piana, l’elastico si rilasciava e il carro armato correva e si inerpicava agile sui libri del tuo compagno di banco, che restava sbalordito e non vedeva l’ora di correre a casa per fabbricasene uno.

La lippa

Si giocava con due bastoni, ricavati spesso da manici di scopa, uno di circa quindici centimetri, appuntito alle due estremità, l’altro di circa mezzo metro. Posato a terra il bastone piccolo, lo si colpiva con quello più lungo facendolo rimbalzare e, una volta saltato in aria, lo si colpiva ancora cercando di mandarlo il più lontano possibile, oppure all’interno di un cerchio disegnato prima per terra. Negli Stati Uniti è in voga un gioco molto simile. Lo chiamano baseball.

Il meccano

Più che un gioco, era un sogno irraggiungibile, mai realizzato. Si favoleggiava di amici che avevano conoscenti i quali assicuravano di avere visto locomotive con tutti i vagoni , torri Eiffel, carri armati e veicoli di ogni genere, insomma qualunque audace opera di alta ingegneria che mente umana avesse fino ad allora concepito. Avevano sentito dire, raccontare. Realizzazioni comunque mai viste, dal vivo. Un sogno appunto, come tanti altri della nostra giovinezza.

Shangai

Venivano sciorinati gli stecchini, a quei tempi di sottile legno; dopo, ho visto, di volgare plastica. Quelli di allora erano semplici bacchettine di semplice legno, di diverso colore a seconda del diverso punteggio; li stringevi fra le mani, li lasciavi cadere sul tavolo e dovevi riuscire a estrarli dal mucchio disordinato uno alla volta, senza che nessuno degli altri si muovesse di un micron, o qualunque altra misura infinitesimale.

I  TAXI

“Aveva un taxi nero che andava a metano / con una riga verde allo chassis” dice la canzone di Enzo Jannacci. Un taxi verde e nero ? Sì, perché fino agli anni Sessanta i taxi erano di questi colori.

Agli inizi degli anni Settanta cambia colore, almeno nei grandi centri urbani, e i taxi si tingono di giallo, dicono per distinguere le macchine anche con le nebbie.Nel 1933 i taxi, a livello nazionale, sono diventati tutti bianchi.

IL POSTINO E IL BIGLIETTAIO

Un tempo il postino, almeno in città, arrivava due volte al giorno, di prima mattina e nel primo pomeriggio. I postini non avevano scooter, né utilitarie con la scritta “Poste italiane”. Andavano in bicicletta, col borsone a tracolla.

Sull’Appennino le cose erano un poco più complesse. Il postino funzionava in paese, ma se la lettera da spedire era per un abitante di una frazione distante, si aspettava che passasse una persona di quel posto isolato e gli veniva affidava: “Tè, Gino, c’è una lettera per la Iolanda di Carletto, tu che abiti lì vicino mi fai il piacere di dargliela ?”. “Lì vicino” magari era un chilometro buono. Il concetto di urgenza era molto diverso; e anche quello di privacy.

A quei tempi, sul tram e sugli autobus c’era, oltre all’autista, il bigliettaio. Memorabili la frase “avanti c’è posto”, col mezzo gremito all’inverosimile, e le litigate con chi si presentava, nella calca, senza soldi spiccioli per il biglietto.

IL DENTIFRICIO

Ridatemi, vi prego, un tubetto di dentifricio come quelli di una volta. Non so di cosa fossero fatti ma erano diversi da quelli attuali. Quelli di oggi sono di materiale indeformabile e a un certo punto il dentifricio non esce più, hai voglia di schiacciare. Il tubetto di una volta si schiacciava con facilità, partivi dalla fine e lo arrotolavi come un tubetto di colore da pittore, come un tubetto di conserva che comprimi col manico di un cucchiaio per cavarne fino all’ultima stilla. Poi è bello il tubetto arrotolato, è segno di un’epoca, della mia giovinezza.

I  BALLI

Nell’immediato dopoguerra c’era una voglia di ballare che faceva luce.

Dopo la grande tragedia la gente voleva dimenticare, aveva bisogno di feste, di vita, e il ballo forniva la medicina giusta. Le sale nascevano alla stessa rapidità con cui si tiravano su le case, i ponti, le strade e i binari della ricostruzione.

Le sale avevano uno stile pressoché unico. C’era un bar attorno al quale stazionavano i maschi, di solito arrivati prima, quasi spinti da un atavico desiderio. Fumavano una sigaretta, sorseggiavano pensosi o ciarlieri un vermut – il vino avrebbe appesantito il fiato – e si scambiavano frasi di grande e urbana mondanità (“ Oh, c’è poca roba stasera, eh ! La più carina ha vent’anni per gamba !” , “Sì, con tre gambe e due di scorta !”).

Quanti amori saranno nati su quelle piste dai nomi fantasiosi, e quanti svaniti nel volgere di una danza, quante frasi di grande nonscialanza pronunciate fra un ballo e l’altro (“Viene qui spesso, signorina ?” , “Ma lei, scusi, studia o lavora ?” “Fuori c’ho la macchina, se vuole l’accompagno a casa !” , “Non stringa tanto, per favore !”) , quante coppie si sono formate, hanno fatto figli, hanno vissuto la loro vita e ogni tanto, in pacifica vecchiaia, si ricorderanno forse di quel “balla, signorina?” che ha dato inizio alla loro storia.

Allora si ballava principalmente il tango. Non, come ovvio, il complicato tango argentino  ma quello europeo, o meglio, una cosa molto più casalinga, che consisteva in : sinistro avanti, destro avanti, sinistro ancora avanti e riunisci.

I  LIQUORI

C’era gente che, poco prima di Natale, si faceva i liquori. Dico li faceva in casa, non li comprava, di sicuro per una certa scarsità di denaro liquido che quella gente forse aveva, poi era bello affaccendarsi per i preparativi delle imminenti fest, che prevedevano, naturalmente,anche una sobria quantità di alcolici.

Non erano però quei liquori casalinghi per infusione che si fanno anche oggi, tipo quello di basilico, o con le bacche del prugnolo, o il limoncello, e via andare. Erano un’altra cosa, e due erano soprattutto i liquori casalinghi di produzione autarchica: L’alchermes e il doppio kummel.

Com’erano questi liquori ? Chi si ricorda ; allora come oggi, poi, non servivano liquori ai bimbi (salvo a quelli siciliani spaventati da una caduta). Io, dopo il filtraggio, avevo però il diritto di succhiare il cotone usato. Bè’ , devo dire che mi piaceva.  

I TRENI A VAPORE

Ah la grande romantica magia dei treni a vapore, oggi solo presenti in qualche sagra rievocatoria. La letteratura dell’Ottocento ne è piena, come fosse la locomotiva la macchina del futuro, una forza meccanica incredibile, ferro carbone e fuoco, stantuffi e ruote a mangiarsi le rotaie e le distanze, lucidi macchinisti e neri e sudati fuochisti, la prova della volontà e dello spirito dell’uomo che soverchia e domina la materia.

Macchina a vapore, Littorina o locomotiva elettrica, i viaggiatori ferroviari di un tempo ricorderanno un’altra cosa scomparsa: la terza classe.

Viaggiare in prima classe era roba impensabile per i più, cose da Orient Express.

La seconda classe era già più umana: anche qui trovavi comodi sedili e atmosfere rarefatte, ma, in confronto alla prima, era quasi un “vorrei ma non posso”.

La terza classe invece – ah la terza – era quella proletaria, quella delle valigie di cartone passate dai finestrini, quella delle urla “sbrigati che qui c’è posto” fra sgomitare continuo, quella dei cartocci di pane e mortadella, di provole e salami affettati sulle ginocchia e di fiaschi di vino, bevuto a collo. Mentre i vagoni delle altre classi avevano solo due sportelli, quelli di terza ne avevano molti, che si aprivano su scomodissimi sedili di legno uno di fronte all’altro.

Anche le sale d’aspetto erano suddivise in classi. Ora ce n’è una sola per tutti, ma, normalmente, serve da rifugio per i senza fissa dimora. O per qualche coraggioso passeggero.

LE BRACHE CORTE

Noi, da ragazzi, portavamo i pantaloni corti.

Non erano corti al ginocchio, di una certa eleganza vittoriana, di un modello che si potrebbe quindi definire “all’inglese”. No, i nostri pantaloni erano proprio corti corti, a mezza coscia, e non c’erano calzettoni al ginocchio a bilanciarne la scrasità della cute coperta, ma solo tragici calzini al malleolo.

D’estate, questo andava anche bene, il pantalone corto rendeva più agile il deambulare, più sciolto il movimento, ma d’inverno la cosa si faceva pesante. Noi, innocenti fanciulli, non conoscevamo altre possibilità, non abbiamo mai reclamato un pezzo di stoffa in più, era la REGOLA imperscrutabile che veniva da chissà quali alte gerarchie che tutto potevano e volevano, era così e basta, e ci tenevamo le gambe martoriate dal gelo, marmorizzate dalle vene che si stagliavano sulla superficie  della pelle delle cosce provocando un curioso fenomeno che, dalle mie parti, veniva paragonato alla pezzatura del manto di certe mucche ed era perciò chiamato “le vacche”.

Verso i tredici anni le cose cambiavano, anche in questo caso seguendo regole segrete dettate da chissà chi: si passava ai pantaloni alla zuava. Abbottonati sotto il ginocchio, si sposavano con un calzettone che copriva il polpaccio e si univa al pantalone all’altezza dell’allacciatura. Dopo un paio d’anni venivamo finalmente forniti di pantaloni lunghi.

LA  NAIA

Oggi il servizio militare obbligatorio non c’è più, ci sono gli eroici volontari, a paga accettabile, con giovani e graziose commilitone al fianco.

Meno male che non c’è più la naia, è vero. Ma tu l’hai fatta ? com’era ?

Era dura, almeno i primi tempi. Dopo un po’ ti abituavi, ti scafavi, imparavi cento piccoli trucchi per imboscarti, come quello, quando percorrevi il cortile della caserma in tempo di riposo, di tenere sempre qualcosa, tipo una cartellina, fra le mani, per fingere di avere da fare, di stare ubbidendo a un ordine superiore. Altrimenti, il primo sergente che incontravi, vedendoti ozioso, ti spediva subito a fare qualcosa di spiacevole e ti fotteva il tempo libero.

In tempo di naia valeva sempre il famoso motto che recita: “La vita militare è rendere le cose molto facili assolutamente difficili attraverso l’inutile”.

E imperava il nonnismo !   I “naioni” (non saprei definirli che così), resi subumani da mesi di quella vita, altro modo di sollazzo non avevano che angariare in mille modi le giovani reclute arrivate, reclute che non traevano soddisfazione dal denunciare le sopraffazioni, perché i superiori non dico “passavano in non cale” le efferate pratiche di iniziazione, ma anzi le caldeggiavano, come autentica espressione della vera essenza della vita militare.

Il “nonno”, cioè il soldato prossimo al congedo, l’anziano di naia, era il capobastone, il dittatore, quello che tutto poteva. Il nuovo arrivato, chiamato vuoi “zanzara”, vuoi “missile”, vuoi “tubo”, vuoi in altri cento modi acconci, era l’agnello sacrificale, la vittima predestinata, che tutto sommato si rassegnava a subire suo malgrado, ben sapendo che poi, a carte invertite e diventando a propria volta nonno, avrebbe potuto vendicarsi, anche se non sugli aguzzini, bensì sui poveri sfortunati che sarebbero venuti dopo.

LA GHIACCIAIA

Ricordo, molti anni fa, mia madre in estasi davanti a un negozio di elettrodomestici: “Guarda, un frigorifero !”

“Ma mamma, l’abbiamo già anche noi.”

“Eeeh, no !  Noi abbiamo soltanto una ghiacciaia; questo, il ghiaccio, lo fa, non bisogna mettercelo dentro”.

Ma prima dell’avvento del frigo come si tenevano in fresco le vivande ?

Si poteva stivare la neve in apposite costruzioni fino a farla ghiacciare, e così durava a lungo, per mesi. Il ghiaccio serviva per gli ospedali , per i ristoranti e per le cantine e le cucine delle ville signorili della zona. Negli anni Quaranta-Cinquanta in casa, prima del frigorifero, qualcuno aveva appunto la ghiacciaia domestica, e avercela non era da tutti. Era un mobiletto della grandezza circa di un comodino, un parallelepipedo laccato di bianco, foderato di zinco, con due scomparti. In uno mettevi il cibo da conservare, nell’altro mezza stecca di ghiaccio, venduto da un addetto che passava periodicamente con un carriolo carico di stecche.

IL TELEFONO

Oggi, con i cellulari, il telefono fisso si usa molto meno, ma allora era un’altra cosa.

Anzitutto non si mise a cuor leggero, si fu un dibattito casalingo (“Quanta sarà la spesa ? E lui – io poi – non starà sempre attaccato al telefono ?”) e favorì la decisione positiva il fatto che un collega di mio padre, abitante al piano di sopra, ci aveva chiesto se eravamo interessati al duplex. Questa parola, oggi credo sconosciuta ai più, significava praticamente avere due numeri di telefono ma una linea sola, a dire che se uno dei due telefonava l’altro utente restava muto. Ma si risparmiava molto sulla bolletta.

Mio padre non lo usava spesso, uomo d’altri tempi e di poche parole che guardava con grande sospetto ogni innovazione tecnica. Mia madre l’usava di rado, ma in quei momenti prendeva una sedia e si accomodava, a significare che la nuova macchina non era tanto per comunicare, quanto per conversare amabilmente a distanza con amiche o parenti, il che, alle volte, provocava l’aprirsi della finestra del piano di sopra e il sentire una voce irritata che sollecitava l’abbandono della linea. La cosa, naturalmente, poteva essere reciproca.

I PENNINI

Ho scoperto che ci sono anche i collezionisti di pennini. Ma li fabbricano ancora oppure sono reperti preziosi (per il collezionista, naturalmente) rintracciabili solo da vecchi rigattieri o scoperti come tesoro fra dimenticate riserve del nonno ?

Nelle scuole di allora c’erano i banchi. A due posti, avevano il ripiano a scrittoio ribaltabile, laccato di un mortifero nero lucido. Erano scomodissimi e partivano da lì scoliosi da coltivare per tutta una vita, lì immobili o quasi per quattro ore di fila.

Il piano inclinato finiva con un asse che aveva al centro e all’estrema destra un buco. Era il sito per il calamaio, di vetro spesso, con bordi ingrossati nella parte superiore per appoggiarsi al foro e la parte inferiore tondeggiante a paiolo; veniva riempito di inchiostro nero da un solerte bidello che periodicamente, con un enorme boccione, provvedeva al rabbocco.

I pennini, pensati forse per i compiti più ardui e ornati di bella calligrafia, avevano forme le più strane e i nomi più immaginifici.

C’era il “gobbino”, c’era la “torre”, un qualcosa che poteva vagamente ricordare la Tour Eiffel, c’era la “manina” , foggiato a mano chiusa con l’indice sfrontatamente puntato, in tempi in cui non solo non si usava, ma anche dai più si ignorava il significato di levare il medio. E quanti altri ve n’erano, ma è inutile continuare con nomi e fogge, tipi e modelli, perché ciascuno avrà avuto i suoi, di nomi, differenti da scuola a scuola, da città a città.

LA TOPOLINO

L’ingegnere Dante Giacosa un due anni realizzò il miracolo di una vettura di portata popolare che non doveva costare più di cinquemila lire. Era il modo di motorizzare l’Italia fascista.

E gli operai, ovviamente, non la comperarono, ma fu la vettura di una piccola borghesia desiderosa di automobile; non aveva grandi prestazioni, raggiungeva gli ottantacinque chilometri all’ora. Ebbe un grande successo che continuò, nel dopoguerra, con l’ultimo modello, la Topolino C. Dal ’47 al ’55 furono prodotti seicentomila esemplari.

Nel 1957fu lanciata sul mercato una nuova superutilitaria, la nuova 500, che diventò l’auto giovanile per eccellenza.

IL CAFFE’ D’ORZO

“In tazza grande o piccola ? Il mistero delle differenti misure delle due tazze mi è stato svelato recentemente: in tazza piccola sarebbe come un espresso, in tazza grande come una benefica tisana.

Un tempo l’orzo lo si tostava in casa, usando diversi marchingegni e poi macinato con l’apposito macinino. Al di là dell’uso per il caffelatte dei bambini, era segno di povertà o di autarchia.

L’orzo sapeva di orzo, non c’era verso, tant’è vero che si vendevano delle miscele, tipo la “Miscela Leone” o “La Vecchina” che erano surrogati del caffè, fatti con orzo, segale, radici di cicoria, ghiande e via andare.

E quando una signora di un tempo riceveva una visita non offriva certo un orzo, ma un caffè. Anzi, perché non ci fossero equivoci, si diceva: “Gradisce un caffè caffè ?”.

IL PRETE

Giorni grami, quelli di una volta, quando il freddo da novembre a febbraio si faceva sentire. Di solito ci si accontentava, per il riscaldamento, di qualche stufa a cassettoni di cotto sovrapposti (storiche le Becchi) o della famosa cucina economica.

Le stanza da letto non erano mai, dico mai, riscaldate. In camera gelava l’acqua delle brocche. Anche il letto era gelato, le lenzuola cariche di fredda umidità, nonostante i pesanti “coltroni” l’imbottiti di lana e le altrettanto pesanti coperte.

Ma c’era il sistema per renderle umanamente accettabili e tiepide: il “prete”. Nome questo dovuto a un malizioso sentimento popolare (era un attrezzo che si infilava nei letti), consisteva in un trabiccolo di legno a forma ovoidale: stecche ricurve lo foggiavano, e al centro, nella parte inferiore, aveva un ripiano di legno foderato di latta. Lì si poneva lo scaldino di terracotta o una bacinella di ferro, che venivano riempiti di cenere e braci e indi sistemati nel letto, col prete, a un’ora acconcia. Al momento di andare a dormire, dopo essersi spogliati alla maggiore velocità possibile nel gelo della stanza (momenti drammatici, ma più drammatici la mattina dopo), ci si cacciava sotto le coltri e si trovava così il letto tiepido e le lenzuola asciutte e calde.

 

 

 

LE SIGARETTE

Ammetto, abbiamo fumato di tutto. Le sigarette si vendevano anche sciolte: uno, metti, ne chiedeva cinque e il tabaccaio le infilava in una bustina trasparente o arrotolava dentro un pacchettino con una schedina della Sisal, che era poi la nonna del Totocalcio.

Fumavano tutti quello che potevano.

C’erano anche gli eroici cercatori di cicche. Una categoria mitica, una vocazione, un destino. Uscivano all’alba muniti di un bastone con un chiodo in punta, e infilzavano, ratti e alacri, qualunque resto di tabacco fosse stato lasciato da sibariti dissipatori sui marciapiedi. Intascavano i preziosi cimeli e a casa, tagliata parte bruciata delle cicche e spezzata la cartina restante (spero aiutati in ciò dalle fedeli mogli, modesto ma fulgido esempio di industria familiare), riempivano enormi cartocci di tabacco recuperato, che in piccola parte consumavano personalmente e in grande parte rimettevano immediatamente in circolazione, a prezzi più che modici.

Noi, quindi, dalla nascita, abbiamo respirato tabacco, prima che si scoprisse he “il fumo nuoce gravemente alla salute”.

Abbiamo fumato di tutto (o quasi tutto, sia chiaro). Il vizio è, purtroppo (o, naturalmente, per fortuna), un vizio !

Come quella volta che coraggiosi giovinetti, entrammo da un tabaccaio con dieci lire e chiedemmo una Nazionale. Il tabaccaio fece, sornione: “Te la incarto o la fumi subito ?”.

IL CINEMA

Una volta, al cinema, pioveva.

Non pioveva certo nelle sale di prima visione e nemmeno in quelle di seconda. Pioveva nelle sale (chiamiamole così) di terza (credo non esistano più), o, alla domenica, nei cinemini parrocchiali, frequentati da noi ragazzi,venti lire due film (Bernadette e Torna a casa Lassie ?) e vai allegro.

Il cinema di una volta non è come il cinema di adesso. Per dirne una sola, al cinema, una volta, si poteva fumare. Si fumava come tutti fumavano allora, molto, si fumava imitando gli attori sullo schermo che fumavano tutti, specialmente nei film americani, prima che gli stessi americani scoprissero che fumare fa male. Le volute di fumo salivano alte annebbiando lo schermo e provocando curiosi fenomeni ottici quando incontravano i fasci di luce del proiettore, fantasiose e fascinose e complesse psichedeliche spirali grigio argento, che si innalzavano al cielo vorticando.

Oggi vedi lo spettatore (specialmente se seguito da frotte di pargoli) entrare in sala reggendo colossali barattolini contenenti il granoturco soffiato e sai che il tutto verà sgranocchiato durante l’intera proiezione con l’effetto “frangean la biada con rumor di croste” tipico dei cavalli normanni e di certi spettatori contemporanei.

Il brustollo dei nostri giorni era più silenzioso, richiedeva però una grande tecnica , raffinata attraverso anni di esperienza : retto da mano sicura,  si poneva il seme di zucca salato sotto i denti davanti e lo si schiacciava leggermente, fino a sentire il “tac” che indicava l’apertura del seme. Lo si schiacciottava sempre gentilmente fino ad avere il seme stesso in bocca. Solo allora si masticava, suggendo nello stesso tempo un poco di sale del guscio. Il guscio stesso veniva allegramente sputato in terra. Si creavano così montagnette di gusci vuoti che lo spettatore accorto, andando al suo posto, evitava di calpestare alzando di poco il piede. Due o tre pacchetti di brustulli potevano bastare ma, se il film era particolarmente emozionante, i pacchetti si esaurivano con rapidità e si doveva attendere l’intervallo e l’apparizione del “cinno” con la cassetta e il suo urlo liberatorio : “Caramelle aranciate gelati brustulli” per fare rifornimento.

Un tempo infine si entrava al cinema quando ci pareva. Questa cosa sconcerta oggi gli spettatori più piccoli  che direbbero: “Ma come, non vedevate il film dall’inizio ? E come facevate a capirci qualcosa ?” . Si cercava di vederlo due volte, anche per stare in un locale più riscaldato delle nostre case.

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