AGOSTO 2012 LEONARDO

notizia pubblica il 14/08/2012 - ultimo aggiornamento del 14/08/2012

CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO

SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE

 

AGOSTO  2012

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sezione letture

 

LEONARDO

1452 – 1519

 

L’agosto 2012 verrà da tutti ricordato come l’arrivo su Marte di una apparecchiatura terrestre e noi residenti in Toscana abbiamo  l’immenso piacere  di aver saputo che con quella navicella è giunto su questo nuovo mondo la foto di Leonardo da Vinci !

Proprio al centro di una minuscola zolletta di terra a forma di stivale è incredibile che tutto il mondo riconosca sia vissuto un genio immenso del quale specialmente noi toscani dobbiamo essere fieri, noi della terra dei Michelangelo, Dante, Giotto, Galileo, Brunelleschi, Collodi e Puccini.

 

 Si riportano solo alcune notizie sulla vita di Leonardo tratte dai libri

di Edmondo SOLMI e Silvia ALBERTI de MAZZERI

 

 

UN RAGAZZO IN APERTA CAMPAGNA TOSCANA

            Fin dal 1457 troviamo Leonardo nella povera casa di Vinci, circondata dal piccolo orto, nell’angusto contorno familiare, col padre e la matrigna, con lo zio Francesco, col nonno Antonio e la nonna Lena.

            Più che i racconti ingenuamente superstiziosi, creati dalle mistiche fantasie medioevali, pieni di religioso terrore, che udiva dai familiari, fin da ragazzo lo riempivano di commozione i monti azzurri lontani, le piccole valli gravide di verde, i colli coronati da lieti paeselli.

Il suo occhio non vedeva mai in nessuna parte i segni delle tenebrose tentazioni del demonio, ma, nella calma dei ridenti mattini sognò quelle stesse forme  che il suo intelletto doveva poi investigare con la ragione, e , col pennello,  creare una seconda volta.

Fino a 24 anni Leonardo rimase figlio unico e crebbe solitario e con poca disciplina.

Frequentò solo la scuola d’abbaco, ossia le elementari, imparando a malapena qualche calcolo, a leggere e a scrivere.

Viveva con gli altri ragazzi del paese, in mezzo ai campi, e, come avrebbe scritto il Vasari, “secondo il suo capriccio”.

            Di questa infanzia solitaria e un po’ selvaggia sarebbe rimasta una traccia per tutta la sua esistenza. Un grande amore per la natura, per la contemplazione, per il silenzio e per gli animali che da ragazzo di campagna aveva ben imparato a conoscere da vicino.

Leonardo pur essendo figlio di un notaio non ebbe l’istruzione che ci si aspetterebbe dal figlio di un borghese.

Non gli venne insegnato il latino che allora era alla base di una buona educazione scolastica e non sappiamo se fu il disinteresse del padre o la scarsa volontà del figlio a provocare una lacuna che sarebbe pesata a Leonardo tutta la vita. Certo è che però fin da ragazzo egli dimostrò un estro artistico fuori del comune.

            Da ragazzo alcuni avvenimenti vennero a turbare il sereno periodo di preparazione alla sua vita: la morte del nonno e la morte di Albiera sono i tristi fatti della giovinezza.

Al lieto periodo nella campagna toscana sotto il monte Albano seguì il fervore della vita di Firenze, dove nel 1469 il padre Ser Piero si era recato ad abitare in piazza San Firenze col figlio Leonardo. Con questo figlio “non legittimo” erano con Piero la novella sposa Francesca Lanfredini, la vecchia madre e una povera fantesca.

Qual fremito economico e intellettuale agitasse allora Firenze non è dato a noi comprendere che in modo pallidissimo.

Dentro le proprie mura Firenze contava centomila abitanti ma disponeva di trentacinque ospedali mantenuti da elargizioni pubbliche e private.

Dalle coste dell’Atlantico a tutti i porti del Mediterraneo non c’era un solo mercato che non fosse invaso dai colorati e preziosi panni toscani.  

Per proteggere i propri diritti commerciali la Repubblica aveva inviato i suoi consoli alle Baleari, in Egitto, fino alla Persia e ai lembi della Cina.  Nelle sue trentatre banche si prestava denaro ai sovrani di tutta l’Europa, al Papa e a tutti i signori italiani per le loro rovinose guerre di potere.

Giunto a Firenze il padre di Leonardo si dona tutto all’avida ricerca della ricchezza, il giovane invece  a quella del sapere.

ALLA BOTTEGA DI ANDREA DEL  VERROCCHIO

Con il grande amore disinteressato al sapere, che resterà poi sempre una delle sue più spiccate caratteristiche, Leonardo si rivolge da principio allo studio delle lettere e della matematica elementare.

Spinto dalle sue attitudini svariatissime e dall’inconscio desiderio di fare, impiegava le lunghe ore del giorno allo studio della musica e attendeva a disegnare e a far di rilievo secondo come gli andava, a fantasia, e lo faceva con la precisione propria di un cesellatore.

Leonardo non voleva assolutamente ereditare la rispettabile professione di notaio.

Il padre avrebbe tesoreggiato che suo figlio avesse impiegato in altro modo doni così considerevoli di natura. Si sarà lasciato magari sfuggire anche qualche rimbrotto e forse arrischiò anche un rimprovero, ma poi, desideroso di imprimere a quell’ingegno vagabondo un indirizzo onorevole, anche se non particolarmente lucroso, prese un giorno alcuni dei suoi disegni e li portò ad Andrea del Verrocchio pregandolo di dirgli “se Leonardo,   attendendo al disegno,  avrebbe raggiunto “alcun profitto”.

Si stupì molto Andrea nel vedere il grandissimo principio di Leonardo” e pregò il padre che mandasse nella sua bottega il ragazzo.

Firenze era allora, e fu per un certo tempo, luogo mirabile per chi voleva imparare le arti del disegno. Col maestro Andrea del Verrocchio, con i condiscepoli Sandro Botticelli, Pietro Perugino e Lorenzo di Credi il Vinci attinse al fare moderno nelle grandi pitture della cappella de’ Brancacci del Carmine  e al fare antico nel Giardino di San Marco.

Andrea del Verrocchio era allora maestro eccellentissimo per la singolare sapienza e il rigore del metodo. Dotato più che di genio, di pazienza, aiutato più che dalla natura dallo studio.

Verrocchio da orefice era divenuto intagliatore, da intagliatore scultore, da scultore prospettivo, da prospettivo pittore, nello stesso tempo che non fu ignaro della musica, toccò tutti i soggetti , intese l’arte perfettamente”.

Il maestro era molto famoso soprattutto come scultore e per la sua tecnica di fondere il bronzo.

Un concetto il nostro Leonardo apprese dal suo maestro fin dal principio:

per fare bisogna anzitutto sapere !

Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza, son come ‘l nocchiero, ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada”.

II Vasari ci dice che dopo breve tempo “il Verrocchio mai più volle toccar colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui”.

 

NECESSARIA LA MATEMATICA PER LA PITTURA !

Alla fine del 1476 Leonardo esce dalla scuola del Verrocchio e va a dimorare in “casa propria”.

l pittore”, dice egli, “deve essere solitario, e considerare ciò che esso vede, e parlare con seco, eleggendo le parti più eccellenti dalle spezie di qualunque cosa lui vede, facendo a similitudine dello specchio”. 

La solitudine deve essere incondizionata ed unica, il pittore deve smarrirsi nella contemplazione delle cose,  fuggendo ogni causa di svagamento” .

 “La solitudine è la madre della libertà”.

Sembra che nel periodo di permanenza nella bottega del Verrocchio avesse accudito alla realizzazione di una “portiera” d’oro e di seta  tessuta da mandare al Re del Portogallo, un cartone d’Adamo e d’Eva, quando nel paradiso terrestre peccano. 

Ispirate ad uno schietto naturalismo furono anche la “Rotella di legno” ceduta al Duca di Milano per trecento ducati e la “Testa della Medusa” che si conserva negli Uffizi.

Dopo la civiltà greco-romana, afferma Leonardo, vi fu un periodo di decadenza e infine la morte; questo periodo corrisponde al Medio Evo.

Secondo lui soltanto con Giotto si ebbe il rinascimento della pittura ;  “Giotto nato in monti solitari, abitati solo dalle capre e simil bestie , cominciò a disegnare su per li sassi li atti delle capre, delle quali lui era guardatore; e così cominciò a fare tutti li animali, che nel paese trovava; in tal modo che questi, dopo molto studio, avanzò non che i maestri della sua età, ma tutti quelli di molti secoli passati”.

Il giovane Leonardo dell’arte riproduttrice del reale mediante il disegno salva nel suo tempo solo le pitture di Masaccio , i rilievi del Ghiberti e le sculture di Donatello.

Secondo lui “mancava generalmente agli artisti del secolo XV una conoscenza esatta delle forme naturali e delle leggi che le governano, quindi il quadro, confrontato con la realtà, palesava dovunque una infedele interpretazione”.

Per sfuggire alle imperfezioni, con chiara coscienza della propria opera , è necessaria al pittore “la matematica appartenente ad essa pittura”.

Con questi concetti il Vinci rivolge in primo luogo lo sguardo allo studio delle forme prospettiche e anatomiche, zoologiche e botaniche, geografiche, architettoniche e meccaniche.

La sua penna, con giovanile entusiasmo, comincia a trarre sul foglio il cammino dei più reconditi effetti dovuti alla percezione, alla distanza, all’aria interposta.

E’ soltanto nel gennaio 1478, quando aveva ventisei anni, che viene commissionata al Vinci una tavola per la cappella di san Bernardo nel palazzo della Signoria. Questa pittura si conserva agli Uffizi. Nello stesso periodo fece anche il San Girolamo ora nella Pinacoteca del Vaticano.

Dopo la congiura dè Pazzi, dove Giuliano dè Medici fu ucciso e Lorenzo ferito, la Signoria, oltre ad ordinare la confisca dei beni dei Pazzi, chiese ad un gruppo di artisti di ritrarre i corpi martoriati dei congiurati. Leonardo eseguì il disegno di Bernardo Bandini appeso alla forca quale traditore della repubblica.

Per arrivare al suo scopo osservava con attenzione la gente comune  e con l’intelletto e il piccolo libro di note pieni di osservazioni e di disegni attinti dal vero, Leonardo rientrava nella sua piccola stanza, fatta per il raccoglimento e lo studio.

Diceva sempre il Vinci che “le stanze, ovvero le abitazioni piccole, ravviano lo ingegno, e le grandi lo sviano”.

Col segreto pensiero di partire da Firenze e di andarsene in luogo più propizio, pressato dalla miseria,  Leonardo accetta dai monaci di San Donato a Scopeto di dipingere una tavola per l’altare maggiore.

Si appassionò molto al soggetto che avrebbe rappresentato l’Adorazione dei Magi ma non arrivò mai a dipingerlo, si fermò al pannello di legno. Fu una ricerca quasi tormentosa del movimento delle figure che dovevano comunicare la varietà delle emozioni.

Terminato il pannello preparatorio Leonardo perse interesse per l’opera perché era riuscito ad esprimere ciò che aveva in mente e l’esecuzione pratica del quadro l’avrebbe lasciata volentieri ad un allievo come faceva il Verrocchio. Ma egli non aveva discepoli che lo aiutassero e l’Adorazione fu abbandonata.

I frati ebbero l’Adozione dei Magi ultimata nella loro chiesa ma dipinta da Filippino Lippi diversi anni dopo.

Al Louvre si conserva il pannello autentico dell’adorazione che ha tratti di somiglianza con il dipinto agli Uffizi.

 

ALLA CORTE DI LUDOVICO IL MORO A MILANO

Ludovico detto il Moro era arrivato a regnare a Milano con un atto di violenza verso la cognata e un vero plagio del nipote minorenne, timido e debole di salute, il quale nutriva verso lo zio una fiducia illimitata.

Ludovico si comportava nelle vita privata come un signore bonario e prudente, piuttosto colto perché sapeva scrivere in latino ed in volgare, era buon oratore e s’intendeva di arte. Grazie ad un’amministrazione oculata diventò uno dei più ricchi nell’ Europa del momento.

Con il liuto d’argento con la forma del teschio di un cavallo, da regalarsi al mecenate milanese, Leonardo decise di recarsi nel ducato lombardo, dove sperava di trovare miglior fortuna che a Firenze.

Aveva con se anche molte carte, schizzi e disegni che si troveranno poi nel Codice Atlantico.

Aveva trent’anni ed era raccomandato da Lorenzo il Magnifico il quale lo mandava a Milano dove poteva meglio di tutti fare l’opera che ricordasse ai posteri Francesco Sforza.

Non sarebbe facile immaginare una più superba presentazione di un Genio ad un Principe: Leonardo aveva una conoscenza vasta e profonda dell’ingegneria militare, dell’architettura e dell’idraulica, bravo nella scultura ed eccelso nella pittura.

Ammiratore di Donatello, discepolo del Verrocchio, orgoglioso d’esser figlio della patria del Ghiberti e dei Della Robbia, il nostro Vinci doveva tendere al più alto segno ideale, salire lentamente e faticosamente alla contemplazione e all’esecuzione del perfetto.

Durante i primi tempi a Milano Leonardo si mise in società con i fratelli De Predis con i quali si impegnò ad eseguire una pala per la Confraternita della Concezione.

A Leonardo però il tema, che era in uso anche nel Medio Evo, non piaceva.

Le rappresentazioni frazionate e con i simboli convenzionali degli angeli, della mangiatoia, del presepe, del Dio Padre con la lunga barba bianca e il vestito d’oro era quanto più lontano si potesse immaginare dalla sua visione artistica.

Leonardo non rispettò il contratto e creò la “Vergine delle rocce” : nella penombra di una grotta, tra fiori, piante e rivoli d’acqua, la Madonna contempla pensosa il figlio, immersa in un’atmosfera spirituale completamente fuori del tempo. Di questo dipinto esistono due versioni : una conservata al Louvre di Parigi ed un’altra alla National Gallery di Londra.

LA PESTE A MILANO

Nell’anno 1484 scoppiò la peste a Milano, ciclica epidemia fatalmente accettata dagli  abitanti delle città medioevali .

A Milano, come a Firenze, Roma, Venezia e in tutti i centri urbani in cui la gente si accalcava nelle strette vie e nelle case malsane, la gamma degli odori “pestilenziali” era vasta: c’era il tanfo di tintori, dei conciatori di pelli, delle osterie, dei macellai con le loro carni spesso andate a male; c’era la puzza dell’umanità che si lavava poco e che non conosceva le fognature. Muli, asini, cani infettavano le strade e soprattutto nel periodo estivo c’era a Milano il tanfo terribile dei bachi da seta. La peste colpiva ogni venti o al massimo quaranta anni, quando cioè una nuova generazione non immunizzata subentrava alla vecchia.

Leonardo fu testimone dell’impotenza dei medici a far fronte al dilagare dell’epidemia, e delle cure che affrettavano la fine dei malati piuttosto che aiutarli.

L’epidemia di cui era testimone spinse Leonardo ad elaborare un progetto urbanistico che doveva per sempre mettere al riparo il popolo dai contagi il progetto urbanistico di una nuova città .

L’agglomerato urbano doveva essere collocato vicino ad un fiume e doveva sorgere su due livelli: uno alto, formato da strade pensili, sostenute da ponteggi,dove si aprivano i giardini e i piani superiori delle case ; l’altro, basso, riservato ai poveri, che sarebbero  vissuti negli scantinati e nei “sotterranei” lavati con “le acque limpide del fiume”. La città avrebbe avuto ampie vie, piazze ariose. La risposta del duca a questo progetto non giunse mai ma l’artista non si rassegnò e continuò nei suoi progetti per nuove fortificazioni del castello.

LA DAMA CON L’ERMELLINO

Nel 1485 il duca ordinò a Leonardo di dipingere per il re d’Ungheria il ritratto di Cecilia Gallerani, la sua amante.

Il volto tramandato da Leonardo parla di una giovane donna tranquilla, dotata di una specie di purezza interiore e per sottolineare questo risvolto dell’anima le pose fra le braccia un candido ermellino, simbolo d’innocenza.

Il ritratto piacque moltissimo a lei e al Moro che lo appese nei suoi appartamenti al castello e non parlò più di inviarlo in Ungheria. “La dama con l’ermellino” si trova oggi al museo di Cracovia.

Ludovico il Moro era molto innamorato della Gallerani dalla quale ebbe parecchi figli. Quando si sposò per ragioni di Stato con la giovanissima Beatrice d’Este le parlò apertamente della sua favorita dicendo che non si sarebbe mai separato da lei. La serie dei suoi amori cominciati con l’ignota madre di Maria, sposa di Galeazzo di Sanseverino, prima e dopo il matrimonio con Beatrice d’Este ; continuò poi con le elette donne Cecilia Gallerani e Lucrezia Crivelli, famose anche per essere state ritratte nel pannello di Leonardo.

Con il ritratto “La dama con l’ermellino” l’artista si conquistò il favore di Ludovico e risvegliò l’interesse dei cortigiani, che cominciarono a trattare con rispetto quel pittore “straniero”, che dipingeva e scriveva con la sinistra e studiava tantissimo di notte.

Il duca gli mise a disposizione uno studio e nel suo intimo sperò che fosse in grado di scolpire anche il monumento a Francesco Sforza, il grande cavallo, che Lorenzo il Magnifico aveva detto era solo lui, ser Leonardo da Vinci, in grado di realizzare a Milano.

LA RICERCA DEL DEFORME

Nel suo laboratorio milanese cominciarono a comparire mendicanti, gobbi, vecchi col gozzo e altri “mostri” che alimentavano la curiosità della gente.

Forse qualcuno, per invidia o per ignoranza, sospettava Leonardo di stregoneria ma lui non credeva affatto nella magia, anzi la disprezzava e ancor più rifuggiva dalla superstizione che dominava anche fra la persone colte. Le sue parole più dure erano contro la magia e la pratica di evocare gli spiriti.

Leonardo temeva l’Inquisizione e perciò scriveva a rovescio e mascherava il suo pensiero  parlando di “spiriti” come se si riferisse ai fantasmi.

Ma l’Inquisizione a quei tempi colpiva la povera gente, non gli scrittori famosi, i filosofi e gli artisti protetti dai principi.

I tempi severi della Controriforma con i roghi dei filosofi come Giordano Bruno o le abiure di Galileo, non erano ancora giunti!

Era vero comunque che anche in quei giorni la superstizione faceva un numero incredibile di vittime, ma i torturati e i condannati erano solo tra il popolo.

Contro le superstizioni Leonardo combatteva con l’arma del ragionamento e sarebbero dovuti trascorrere quasi tre secoli prima che gli uomini di cultura levassero la loro voce contro l’Inquisizione, la tortura e le assurde credenze magiche.

Va notato che allorquando parla dei costumi del clero le sue parole diventano gravi e severe. “Le promesse di Gesù non furono per chi fosse in regola con le leggi del cerimoniale, o per chi offrisse maggior numero di sacrifizi, ma per i cuori puri e per gli uomini di buona volontà”.

LE LACUNE DELLA SUA ISTRUZIONE

Il ritratto della Gallerani fu molto lodato a corte, ma Leonardo subito abbandonò il pennello per dedicarsi con grande impegno alla ricerca e allo studio.

Il contatto con l’ambiente dei letterati e dei poeti del Moro lo aveva reso penosamente consapevole delle lacune nella sua istruzione e quindi compilò con impegno un elenco di alcune migliaia di vocaboli derivati dal latino, per migliorare il suo modo di esprimersi.

Dietro l’apparente disordine delle sue carte cominciano, in questi anni, ad affiorare gli interessi principali che lo avrebbero seguito per il resto della sua esistenza.

Le ricerche sul corpo umano e gi studi di architettura, civile e di difesa, sono temi che compaiono di continuo nei primi manoscritti.

Nel 1487 partecipò ad un concorso indetto dalla Fabbrica del Duomo di Milano: si trattava di progettare una cupola sostenuta da un sistema di pilastri che la rendessero sicura al crollo; un problema, all’epoca, per niente semplice. Dopo alcuni mesi Leonardo chiese indietro il modello in legno che aveva presentato per apporvi alcune modifiche e quando sia accorse che era stato danneggiato non si ripresentò più alla gara.

Per salvaguardare il suo prestigio l’artista cominciò ad occuparsi con impegno  e più a fondo del monumento per Francesco Sforza, ma gli eventi di corte purtroppo lo distraevano, distogliendolo dagli studi necessari.

LE NOZZE FRA GIAN GALEAZZO E ISABELLA D’ARAGONA

Nel 1490 fu celebrato il matrimonio tra Gian Galeazzo , legittimo duca di Milano, e Isabella D’Aragona, nipote del re di Napoli.  

Ludovico il Moro voleva sbalordire i napoletani con il lusso della sua corte e Leonardo fu chiamato ad organizzare i festeggiamenti fra i quali figurava una rappresentazione allegorica intitolata “Il Paradiso”, i cui versi sarebbero stati scritti dal poeta Bellincioni.

Lo spettacolo approntato dal grande scienziato ebbe un successo strepitoso per le fantastiche novità sceniche escogitate.

SALAI’ IL DIAVOLETTO

Dopo la festa del “Paradiso” venne a vivere con Leonardo un ragazzo di dieci anni che probabilmente raccolse per strada.

Si chiamava Giacomo Caprotti ma era stato soprannominato “Salai’” che in gergo significava “diavoletto”. Il ragazzo era un poco di buono, e Leonardo lo sapeva. “Ladro, ostinato, bugiardo, ghiotto” scrisse appena lo accolse in casa.

Molti biografi si sono ostinati a vedere soltanto un rapporto di generosa protezione tra Leonardo e il Salaì, ma una recente scoperta durante il restauro del Codice Atlantico fa sospettare che non fosse così. Sul retro di un foglio manoscritto di Leonardo è infatti venuta alla luce una caricatura oscena di Salaì, eseguita in bottega da qualche allievo, che lascia pochi dubbi circa la natura dei suoi rapporti col maestro.

A PAVIA PER UN PARERE SUL DUOMO IN COSTRUZIONE

Insieme al famoso architetto Francesco Martini Leonardo si recò a Pavia per seguire i lavori della costruzione del duomo e questa città lo conquistò.

Vi studiò e disegnò parecchie chiese, visitò la biblioteca dell’università e conobbe i “dotti” che vi insegnavano, allacciando relazioni che sarebbero durate negli anni.

Incontrò fra gli altri il grande matematico Fabio Cardano, il medico Marcantonio della Torre e il pittore Agostino da Pavia.

Trascurando i lavori del duomo ai quali accudiva il Martini si mise per diletto a ritrarre l’antico teatro eretto da Teodorico e il monumento detto del Regisole, un sovrano longobardo a cavallo che avrebbe potuto ispirarlo per la statua di Francesco Sforza.

Alla fine dell’estate, data anche la sua situazione economica divenuta abbastanza precaria non essendovi nuove entrate, dovette lasciare a malincuore Pavia per far ritorno al suo studio, dove lo attendeva il duro lavoro di scultore del monumento equestre di Francesco Sforza.

INTRATTENIMENTI A CORTE

Il favore di Leonardo a corte era ormai saldo.

Egli imparò a conquistarsi la simpatia dei potenti: sapeva conversare, raccontare favole, indovinelli e mettere in scena allegorie, che schizzava prima a penna o ad acquarello.

Le favole, quelle che oggi sono riservate esclusivamente ai bambini, intrattenevano gli adulti nelle corti e nei convegni. Egli scrisse anche una serie di “facezie”, che probabilmente aveva sentito da altri. Le satire di Leonardo colpivano di preferenza i preti e i frati, come del resto doveva essere abitudine del popolo, guidato da un clero spesso corrotto.

Questi passatempi non distoglievano però Leonardo da impegni più seri e infatti dipinse il famoso ritratto del “Musico” conservato all’Ambrosiana, e cominciò ad appassionarsi in anatomia.

LA FUSIONE DEL CAVALLO

Assorto nelle guerre e nelle trattative con Venezia, preoccupato negli intrighi e nella peste il Moro non aveva avuto agio di sollecitare da Leonardo il compimento della statua equestre a Francesco Sforza. Ma quando la tranquillità esterna ed interna gli fece rivolgere l’animo all’abbellimento della Lombardia, il Duca non mancò di ricordare al Vinci la promessa e l’obbligo assunto.

L’artista si recò a vedere i destrieri più belli, per scegliere quello che sarebbe servito da modello. Era un buon cavaliere e lo affascinavano le pose selvagge dei cavalli, i movimenti elastici, gli stupendi muscoli di quelli da battaglia.

Impiegò tre anni per modellare il monumento in argilla e per le sue grandi dimensioni la statua venne battezzato “il colosso”.

In quanto alla fusione, che Leonardo si proponeva di eseguire senza scomporre in pezzi il modello, era giudicata impossibile dagli esperti dell’epoca ;  ma l’artista, attraverso molti accorgimenti, sperava di riuscirci.

Disegnò un’enorme ingabbiatura per trasportare senza danni la statua al luogo della fusione, dove avrebbe scavato una fossa molto profonda, capace di contenere il cavallo “a diacere” . Attorno alla fossa progettò di situare i fori necessari alla liquefazione del metallo; nella forma sarebbero stati poi inseriti dei fori, attraverso i quali il bronzo fuso avrebbe raggiunto lo spazio ad esso riservato.

Gli eventi politici e la crisi economica del ducato gli impedirono di sperimentare il suo metodo di fusione. Ma Leonardo indicò così un suo profondo convincimento, e cioè che un artista doveva studiare le leggi della matematica e della fisica per riuscire nei suoi intenti.

Il modello di gesso fu esposto nel 1493 al castello, tra l’ammirazione generale, in occasione delle feste per il matrimonio di Bianca Maria, figlia naturale del Moro, con l’imperatore Massimiliano d’Austria.

Il sonetto che si fece interprete dello stupore e dell’approvazione della corte sforzesca recitava così:

            Che Grecia e Roma mai vide il più grosso

            Leonardo da Vinci a farlo sol s’è mosso

“DA FARE UNO CIELO”

Come per le nozze di Isabella e Gian Galeazzo anche questa volta, con le nozze di Bianca Maria e Massimiliano, furono messe in scena rappresentazioni ed allegorie.

Leonardo disegnò un drappo “da fare uno cielo” e decorazioni nelle sale del castello. Pensò ai costumi per gli attori e fece in modo che le severe sale di pietra fossero rese allegre con arazzi, sete e stendardi.

TORNA ALLE RICERCHE

Dopo aver adempiuto i suoi doveri di artista di corte, egli tornò alle amate ricerche. Dedicò molta attenzione alla prospettiva, che chiamava “guida e timone della pittura”; indagò sui fenomeni della luce e sulle proprietà dell’occhio umano.

Con i suoi studi sui fossili Leonardo arrivò a una profonda consapevolezza dei mutamenti della terra durante le ere preistoriche e combatteva la teoria che quei misteriosi resti marini fossero stati depositati sulle montagne durante il diluvio universale.

L’artista si riprometteva di unire gli appunti e di articolarli in diversi libri, ma non lo fece mai.

Alla sua morte sembra che lasciasse circa tredicimila pagine di note, delle quali solo settemila ci sono pervenute.

A  VIGEVANO

Su invito del Moro Leonardo si recò a Vigevano nel 1494 per un lavoro di abbellimento del castello, con nuovi schizzi di fontane e fregi decorativi. Ampliò i terreni coltivabili aprendo canali irrigui e fece iniziare la cultura del gelso e del riso che avrebbero fatto la fortuna della Lombardia. Fece venire dalla Linguadoca pecore pregiate nonché cavalli che seppero competere con la famosa scuderia di Galeazzo Sanseverino. Leonardo infine disegnò una scala di centotrenta gradini sulla quale cadeva l’acqua di irrigazione provocando una lenta discesa del terreno che avrebbe in effetti riempito le paludi presso la Cascina sforzesca.

Conobbe in questa occasione anche il Bramante con il quale avrebbe lavorato più tardi nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie il quale Bramante risvegliò in Leonardo nuovi interessi di carattere architettonico.

L’ULTIMA CENA

Nel 1495 venne dato a Leonardo l’incarico di affrescare il refettorio dei Frati Predicatori con l’Ultima Cena di Gesù e gli apostoli, capolavoro assoluto che portò a termine in tre anni.

Sembra che si aggirasse al tramonto per i bassifondi della città in cerca dei volti e degli atteggiamenti del popolo. Disegnò perciò parecchie teste dall’espressione bizzarra.

Anche il “Cenacolo” procedeva con lentezza, specchio dei suoi dubbi e della intima aspirazione al perfetto.

La pittura murale non si adattava però a queste esigenze di lentezza perché deve essere eseguita “a fresco” : intonaco e colore si asciugano insieme.

Decise quindi Leonardo di usare “colori a tempera” i quali gli permettevano di procedere con lentezza e offrivano una gamma di tinte quasi infinita.

Fu un tragico errore che avrebbe provocato, in pochi anni, la rovina dell’”Ultima cena” !

Leonardo scelse, fra i molti episodi possibili della vita del Cristo, il momento più umano e drammatico: quello in cui il Cristo, interrompendo il pacifico chiacchiericcio conviviale, comunica agli apostoli la sua sconvolgente profezia: “Uno di voi mi tradirà”. Volle fermare nel dipinto l’attimo che segue l’accusa, quando gli apostoli, secondo il Vangelo, “si guardavano l’un l’altro  …. Incerti di chi parlasse”.

Il naturalismo più severo nel complesso della scena doveva palesare in Cristo l’essere umano nella sua espressione più ideale e divina; negli Apostoli l’essere umano nella varietà infinita delle età e dei caratteri; in Giuda l’essere umano nella sua abbiezione più bassa fisica e morale. 

Meno male che il cardinale Borromeo ordinò ad Andrea Bianchi, detto il Vespino, di fare una copia del dipinto che si stava rapidamente deteriorando. Questa copia la si può ammirare alla Pinacoteca Ambrosiana.

Leonardo non si rese conto di aver creato un labile, evanescente, anche se perfetto capolavoro. Se infatti avesse compreso il suo errore nella scelta del tipo di pittura adottato non avrebbe ripetuto l’esperimento pochi anni dopo, con conseguenze ancora più gravi, nella “Battaglia di Anghiari”.

Appena il Cenacolo fu compiuto, l’ammirazione non ebbe freno, e sono pochi gli scrittori del tempo che non rammentino la grande opera, come lo sforzo più grande al quale possa giungere un genio.

Verso l’anno 1652 i frati, che volevano più facilmente entrare in refettorio, vollero ingrandire la porta; il che fecero rompendo le gambe ad alcuni apostoli e di Cristo medesimo.

Poco dopo il 1790 un generale repubblicano fece del refettorio una stalla ed i muri si coprirono di muffa e di umidità. I soldati infine si divertirono in quei giorni a prendere di mira gli apostoli a colpi di mattoni e ne rimane traccia.

Nel 1800 l’acqua addirittura arrivò nella stanza fino a circa 90 centimetri.

DUE RITRATTI

Tra il 1495 e 1497 eseguì l’artista due ritratti . Uno è quello conosciuto con il nome di “Belle Ferroniere” della nuova amante del Moro, Lucrezia Crivelli, dalla quale ebbe diversi figli . Sarebbe stata l’ultima donna al fianco del duca. Oggi il quadro si trova al Louvre.  

L’altro disegno riporta sulle pareti del refettorio di Santa Maria delle Grazie il duca con Beatrice ed i figli

LUCA PACIOLI MATEMATICO

Quando Leonardo incontrò il matematico Luca Pacioli alla corte del Moro dove era stato chiamato come lettore di matematica, si pose subito nella posizione di uno scolaro verso il maestro.

Il prestigio del Vinci era andato in quegli anni via via aumentando ma tra recitare rime, favole e profezie e scrivere trattati correva molta differenza.

Fino a quel momento Leonardo non si era mai avvicinato seriamente alla matematica poiché non capiva i testi. Aveva trattato argomenti di pittura e di meccanica e cominciato l’anatomia ma solo ora con l’aiuto del Pacioli poteva apprendere le basi della geometria.

L’artista eseguì per lo stesso amico matematico Pacioli sessanta disegni di corpi regolari per il libro “De Divina Proporzione”.

L’ammirazione del francescano Pacioli per Leonardo non ebbe più limiti quando vide la prodigiosa “Cena”, il grandioso “Cavallo” e le opere inestimabili di Prospettiva, di Anatomia e di Meccanica.

Lo giudicò come il genio più grande che mai uomo potesse immaginare.

L’ammirazione del Pacioli era simile a quella del re di Francia  Luigi XII  il quale, entrato nella chiesa delle Grazie e veduto il grandissimo “Cenacolo” , rivolto ai gentiluomini che lo seguivano, si racconta abbia subito domandato se fosse stato possibile portarlo in Francia con tutta la muraglia, senza rovinarlo e non badando a spese.

A MANTOVA E VENEZIA

Insieme al Pacioli Leonardo sostò brevemente a Mantova dove ritrasse in carboncino la ospitale Isabella Gonzaga  e le promise che a breve avrebbe fatto anche un suo ritratto a colori.

Come molte volte vedremo anche questa promessa non ebbe seguito. Per dar spiegazione del suo non terminare le sue opere il Leonardo diceva che per quanti sforzi facesse non gli era mai dato raggiungere quella meta che risplendeva nell’idea del suo intelletto”.

A Venezia rifiutò ogni impegno che richiedesse tempo e si dette a profondi studi matematici con l’amico.

Avendo poi ritrovato in quella città un famoso intagliatore e fabbricatore di strumenti musicali approfondì le sue conoscenze anche in questo settore.

Nel frattempo però le cose si mettevano male per Ludovico il Moro che veniva tradito dalle sue truppe ed i francesi irrompevano su Milano.

Non era ormai possibile per Leonardo e Luca Pacioli ritornare a Milano dove il Duca “aveva ormai perso lo Stato, la roba e la libertà” e quindi decisero senza indugi di indirizzarsi verso Firenze.

A FIRENZE

            Leonardo aveva raggiunto a Milano piena soddisfazione .

Abbandonando i pennelli ai discepoli aveva meditato e discusso di scienza con Fazio Cardano, Luca Pacioli, Pietro Monti, Giacomo e Andrea di Ferrara e i Marliani.

Le ricerche intorno alla pittura e all’architettura militare e civile lo avevano ammaestrato nei primi tempi nel pensiero astratto e ben presto ora toccava arditamente le più elevate vette della fisiologia e dell’anatomia, della meccanica e dell’idraulica.

A Firenze tutti credevano, avvicinando Leonardo di avvicinare un pittore, un artista, e con grande sorpresa s’accorgono invece d’aver a che fare con uno scienziato.

La repubblica borghese era occupata nella guerra di Pisa e stava lentamente morendo la libertà interna. Cadevano ad uno ad uno i suoi grandi figli, già maestri nel mondo in sapienza civile ed arte.

Leonardo si avvicinò ai suoi vecchi amici e alle sue vecchie mura più con rammarico che con gioia : gli sembrava di ricadere vent’anni addietro e di non essere ormai che un ignoto ed un estraneo.

Approfondì la sua amicizia con Niccolò Machiavelli che era segretario della Signoria e insieme esaminarono le condizioni militari per battere Pisa.

In particolare fu studiata la possibilità di deviare il corso dell’Arno per impedire a quella città il passaggio di soldati, merci e rifornimenti lungo il fiume stesso.

Questi lavori, dopo gli attenti studi del Vinci, furono effettivamente presto iniziati ma poi tutto finì per l’ammontare eccessivo che costava il progetto.

I frati de’ Servi avevano in precedenza assegnato a Filippino Lippi l’incarico di una tavola per l’Altar Maggiore  dell’Annunziata ed ora all’arrivo di Leonardo passano a lui questo lavoro.

Nell’aprile 1501 era completato il cartone e il Vasari dice che nella stanza “Durarono giorni d’andare a vederlo gli uomini e le donne, i giovani ed i vecchi, come si va alle feste solenni, per vedere le meraviglie di Leonardo, che fecero stupire tutto quel popolo”.

Oggi questo cartone si conserva al Louvre.

Di questo capolavoro un primo schizzo dell’artista si conserva nella Galleria Nazionale di Londra mentre una tavola con qualche variazione si trova all’Accademia delle belle arti di Venezia.

Il Gonfalonieri Pier Soderini offriva inutilmente in quei giorni a Leonardo il gran marmo giudicato un po’ “guasto’’  che giaceva da tanto tempo nel cortile del palazzo , marmo che poi fu brillantemente usato da Michelangelo per il David.

Il Vinci preferiva il pennello e i progetti architettonici e militari al duro scarpello !!

L’interesse artistico del maestro era ormai soppiantato dalle investigazioni scientifiche e dagli esperimenti matematici. Non aveva più tempo per finire i suoi disegni che rimanevano, come abbiamo visto, allo stato di cartoni.

In Firenze Leonardo aveva incontrato ciò che si aspettava : un premere da ogni parte, da vicino e da lontano, perché facesse “qualche gran lavoro in scultura o in pittura”.

 Lui però pensava che se avesse ritrovato un altro Ludovico il Moro avrebbe forse riconquistata la propria libertà, avrebbe assicurato a se stesso il riposo, lo studio e la potenza.

Nell’inverno del 1301, stante la caotica situazione militare di Firenze, gli balena l’idea d’andarsene.

Gli sorrideva da tempo la figura del Valentino, quel Cesare Borgia ambizioso, intraprendente, audace e predestinato a fondare e mantenere uno stato forte e vasto.

A ROMA, DA CESARE BORGIA

La famiglia Borgia affondava le sue origini in un oscuro paese del Sud della Spagna.

Callisto, primo papa di questa famiglia, aveva condotto a Roma una tribù di parenti.

Rodrigo era nipote di Callisto e fu fatto cardinale a soli venticinque anni.

Divenuto Papa prese il nome di Alessandro VI ,  ebbe parecchie amanti e visse nel lusso più sfrenato. Da Vannozza ebbe quattro figli Juan, Cesare, Lucrezia e Jofrè . Secondo l’uso spagnolo ad ognuno di loro volle assegnare un futuro ben preciso .

Il primogenito Juan venne designato alle armi ed al potere con il titolo di duca di Gandìa..

Cesare doveva essere prete. Fu fatto a diciotto anni vescovo di Valenza e subito dopo cardinale.

Lucrezia doveva servire gli interessi di famiglia e al suo terzo matrimonio approdò alla corte di Ferrara sposando Alfonso I d’Este.

Al più piccolo, il bel Jofrè, fu preparato il matrimonio con la nipote del re di Napoli.

Un tratto tipico della famiglia Borgia era il legame quasi tribale che univa i suoi componenti. Da qui le molte voci d’incesto; l’amore poco fraterno di Cesare con la sorella Lucrezia e quello altrettanto poco paterno di papa Alessandro VI  verso la bella figlia.

Cesare Borgia presso il quale andò Leonardo a Roma non intendeva però seguire i progetti del Papa, suo padre !  

Rinunciò al cardinalato e sposò Carlotta D’Albret, ottenendo il ducato di Valentinois.

Questo matrimonio consentì al re di Francia di prendersi con poca fatica il ducato di Milano di Ludovico il Moro e Cesare Borgia ebbe mano libera per occupare la Romagna spodestando vecchie Signorie.

La donna del Borgia detto “Il Valentino” si chiamava Fiammetta e gli altri amori furono passeggere infatuazioni. Le voci popolari del tempo però accusarono Cesare Borgia di aver fatto assassinare per gelosia il fratello Juan e di avere per amante la sorella Lucrezia.

Il Borgia con sanguinose lotte aveva conquistato tutto lo stato di Urbino ed arrivato in quella città chiamò Leonardo per commettergli alcune opere architettoniche.

In Urbino il nostro fa schizzi e dirige i lavori della costruzione di scalee, scolatoi e potenziamenti della fortezza d’Urbino e della sua cittadella.

Quando Borgia ebbe conquistato Camerino il Vinci fu subito invitato a recarsi a Cesena perché progettasse e facesse realizzare un canale navigabile che da questa città portasse a Cesenatico e che anche sistemasse il porto. Questi in  effetti diventò il porto più bello e più comodo dell’Adriatico.

A Leonardo il Borgia conferì addirittura la “Patente ducale” cioè gli dette facoltà di usare, in ogni suo possedimento,  di qualsiasi cifra e mano d’opera per operare in ciò che avesse giudicato lui doversi fare.

Nessuna prospettiva poteva essere migliore per il grande artista e scienziato !

IL Borgia era una furia che conquistava e sottometteva ai suoi voleri tante  zone della Romagna e della Toscana.

Un correre insomma continuo anche per il Vinci da Urbino a Siena, e poi Piombino, Pesaro, Rimini, Cesena, Imola, Sinigaglia, Perugia,  Acquapendente e naturalmente Roma.

Questa vita frenetica non era l’ideale per un artista come il nostro.  Tante speranze erano scadute in delusioni perché Leonardo voleva riservarsi anche il tempo da dedicare ai suoi studi prediletti in altri campi di grande interesse oltre all’ architettura  civile e militare

Il Borgia aveva fatto strangolare a tradimento i suoi capitani Vitellozzo Vitelli e Oliverotto da Fermo, attratti con false promesse a Sinigaglia.

Questo fatto fu forse la ragione del cambiamento della valutazione di Leonardo sul Valentino.  

La violenza e la crudeltà di Cesare Borgia lo disgustarono, o forse non credeva ormai più che la sua “perpetua fortuna” sarebbe durata.

Firenze dovette apparirgli di nuovo un porto di quiete alle cui spalle rumoreggiava un mare tempestoso come quello in cui scorrazzava il Valentino.

Nella torrida estate del 1503 inevitabilmente  la “perpetua fortuna” di Cesare Borgia tramontò per sempre!

 Sembra che il Pontefice si dovesse recare a cena fuori Roma, nella villa di un ricco cardinale , Adriano Castellesi da Corneto.

Il Papa Alessandro VI, con l’aiuto del figlio Cesare Borgia, preparava in effetti l’avvelenamento dello stesso  prelato per incamerare i suoi beni , come già aveva fatto con successo con gli Orsini, il Michiel e altri.

A questo scopo Cesare “comprò” il coppiere del cardinale e gli mandò “certi fiaschi di vino infetti di veleno”, da servire a cena al cardinale Castellesi.

Ma la calura sfibrante di quell’estate tradì i due Borgia.

Cesare, prima dell’inizio della cena nella villa, aveva mandato al coppiere il vino avvelenato; ma il papa “sopravvenne per sorte in anticipo ed era molto assetato”. Poiché non erano ancora giunte le bevande, si fece versare il vino di Cesare da un servo, che credeva si trattasse di una riserva speciale.

Poco dopo arrivò anche il Valentino che, vedendo bere il padre, cadde nel medesimo errore e prese anche lui il veleno.

Cesare Borgia non morì perché, esperto di veleni, si curò subito con potenti antidoti ma rimase “oppresso da lunga e grave infermità” mentre il padre , papa Alessandro VI, morì tra dolori atroci nello spazio di pochi giorni.

RITORNA A FIRENZE

LA BATTAGLIA DI ANGHIARI

Pier Soderini, amico ed ammiratore di Leonardo, era Gonfaloniere perpetuo della repubblica fiorentina e sapeva che la città intera domandava con insistenza a Leonardo che lasciasse qualche memoria, “e ragionavasi per tutto di fargli fare qualche opera notabile e grande, donde il pubblico fosse ornato e onorato da tanto ingegno, grazia e giudizio”.

 Dovendosi dipingere a nuovo la gran sala del Consiglio si pensò di allogare a Leonardo una delle pareti; quella di fronte fu poi affidata a Michelangelo.

Leonardo aveva scelto a soggetto la Battaglia di Anghiari avvenuta fra i fiorentini e le genti del Duca di Milano. Michelangelo sceglierà invece un episodio della guerra di Pisa.

Nel febbraio del 1305 Leonardo aveva già compiuto il cartone.

Il Vinci aveva letto in Plinio la ricetta d’uno stucco del quale si servirono i romani nelle loro pitture. Volendo dipingere a olio sulla parete sfruttò le sue conoscenze nel campo della chimica per trovare il modo di fare un incollato resistente al tempo.

In Santa Maria Novella fece anche una prova di questo tipo di colori. Davanti ad un suo dipinto fece accendere un bel fuoco che “asseccò e disseccò” perfettamente il lavoro.

Volle quindi mettere in pratica questo metodo anche nella sala del Gran Consiglio Fiorentino, nella Battaglia di Anghiari, e in basso, dove il fuoco arrivava, ottenne la disseccazione, ma in alto, per la grande distanza dal dipinto, il calore non arrivava e la materia miseramente colò.

Del cartone si è perduta ogni traccia e non possiamo che farcene una lontana idea da alcuni disegni che si conservano a Venezia (la lotta di un cavaliere con un fantaccino) a Windsor (una squadra di cavalli che si lancia a gran corsa) a Budapest (teste di guerrieri) e altrove da disegni di Raffaello , di Lorenzo Zacchia di Lucca, di Rubens, di Edelink e di Carlo Timbal.

Nemmeno Michelangelo però finì la sua pittura perché fu chiamato a Roma dal papa per la Cappella Sistina.

IL cartone di Leonardo era esposto nel palazzo dè Medici, quello di Michelangelo in una Sala del Papa.

Tutti i pittori del secolo si recarono a studiare i due sublimi disegni.

Si dice che il cartone di Leonardo fu “ruinato” , cioè distrutto, dai seguaci di Michelangelo e quello di Michelangelo dai seguaci di Leonardo. Tutti questi facinorosi erano anche timorosi che la gloria dell’uno velasse quella dell’altro.

LA DEVIAZIONE FALLITA E LA PERDITA DEL PADRE

Fallì insieme al disegno in Palazzo Vecchio anche il progetto di deviazione dell’Arno e si raffreddarono i rapporti col Machiavelli e col Soderini, i quali fino all’ultimo l’avevano appoggiato. Si diceva da parte del popolino che “Il fiume si rise di chi gli voler dar legge”.

Ser Piero da Vinci, padre di Leonardo, morì ottantenne lasciando dieci figlioli maschi e due femmine. Il testamento dette inizio a un’aspra lite tra Leonardo e i fratellastri che non gli vollero corrispondere la sua parte di eredità.

IL SOGNO DEL VOLO

Chi incolpava Leonardo di essere lento svagato e di ideare progetti assurdi, non sapeva di un altro sogno,  più assurdo di tutti per quel tempo. Egli nutriva in segreto, e da anni,  un sogno che sotto forma di incubo lo ossessionava fin dall’infanzia : librarsi nell’aria come un grande uccello rapace.

Nel Codice sul Volo degli uccelli, Leonardo fissò il momento straordinario in cui il suo apparecchio, staccandosi dal monte Ceceri di Fiesole, si sarebbe librato nel cielo, dando eterna fama al suo inventore.

Sia che egli provasse o no di persona il suo apparecchio,  gli studi che fece in quegli anni mostrano un’evoluzione dei suoi studi approfonditi : ben presto l’artista capì che l’energia muscolare non sarebbe bastata a mantenere in aria l’uomo; pensò quindi ad un “motore” costituito da molle a balestra, ma anche in questo non giunse a risultati : cercò allora di imitare il volo degli uccelli rapaci e disegnò una specie di aliante.

RITRATTO DI MONNA LISA

Francesco del Giocondo aveva sposato in terze nozze una gentildonna della famiglia Gherardini, originaria di Napoli, ed aveva patito la morte dell’unica figlia.

Monna Lisa si era sposata a venti anni, ne aveva 24 nel giorno di questa sventura e 30 quando Leonardo la dipinse, quell’età in cui “la bellezza femminea è sfolgorante come il sole all’occidente”.

Veniva via Leonardo dagli impegni nella Sala del Papa o in quelli nella sala del Gran Consiglio, oppure dai suoi prediletti studi scientifici e si recava , come a sollievo, a ritrarre la bellissima Monna Lisa.

Voleva fare col pennello una cosa viva.

Lo scopo della pittura di ritratto, secondo il nostro  artista, è di dare il fiato immortale dell’arte alla caducità di membra mortali.

Il ritratto di Monna Lisa fu quale doveva essere. “Gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine”, disse insuperabilmente il Vasari, “che di continuo si veggono nel vivo, ed intorno ad essi erano tutti quei rossigni lividi e i peli, che non senza grandissima sottigliezza si possono fare;  le ciglia per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più rari, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali;  il naso con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo;  la bocca, con quella sua sfenditura, con le sue fini unite dal rosso della bocca, con l’incarnazione del viso, che non colori, ma carne pareva veramente;  nella fontanella della gola, chi intensivamente la guardava, vedeva battere i polsi. E nel vero si può dire, che questa fussi dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice, e sia qual si voglia”.

Leonardo tenne con sé il quadro e lo portò in Francia, alla corte di Francesco I . Il gran re comperò questa tavola con dodicimila ducati.

Ciò che al momento però ora importava a Leonardo, dopo le cocenti delusioni che aveva patito con la mancata deviazione dell’Arno e il disegno della Battaglia di Anghiari , era andarsene da Firenze.

 Poco dopo aver dipinto la Gioconda ottenne dalla Signoria il permesso di recarsi a Milano, soltanto per tre mesi, perché secondo il Governatore Soderini avrebbe dovuto tornare a terminare l’affresco nel Palazzo Vecchio.

Si era anche impegnato il Vinci a pagare una penale di centocinquanta ducati per ogni mese di assenza oltre il termine concesso.

 In pratica poi rimase a Milano tutto il tempo che ritenne opportuno perché era sotto la protezione dei francesi.

DI NUOVO A MILANO

In Milano dello splendore della casa sforzesca non restava più che una pallida traccia.

I germi dell’arte e della scienza però si erano sviluppati spontaneamente e rigogliosamente, come in terreno fecondo, e Leonardo poté riconoscere i progressi dei metodi artistici e scientifici iniziati dal suo genio potente.

Carlo d’Amboise, Governatore del Ducato di Milano, aveva sentito il desiderio di ridonare alla Lombardia quella floridezza di cultura, della quale restavano dovunque recenti le vestigia e si comprende con quali manifestazioni di simpatia accogliesse Leonardo che già fino dai primi anni della sua dimora in Italia amava per fama.

Durante il suo secondo soggiorno a Milano l’artista riprese le escursioni che compiva da solo e che gli servivano per studiare le rocce, le erbe, i fossili e le montagne inesplorate. Fatto curioso era che, come tutti,  non aveva idea dell’altezza reale delle vette che scalava.

Il Governatore gli affidò qualche opera di pittura e gli commise diversi progetti architettonici e idraulici.

Carlo d’Amboise trovò in Leonardo, sotto l’esterna apparenza dell’artista, uno scienziato universale. La sua grande ammirazione  si legge chiaramente nella lettera di ringraziamento alla Signoria fiorentina che aveva permesso a Leonardo di rimanere a Milano per un tempo prolungato, oltre cioè i primi accordi.

In occasione dell’incontro con il re di Francia Luigi XII Leonardo presentò al sovrano un disegno recante il Cristo nudo appoggiato ad una lunga canna che ora si conserva a  Windsor.

A Milano il sovrano francese dimorò per un mese e mezzo, stava volentieri a conversare con Leonardo e lo nominò “ingegnere ordinario del regno”. Per i francesi, è importante notarlo, il termine “ingegnere” comprendeva una varietà di mansioni : progettare fortificazioni, edifici, canalizzazioni , tutte cose che Leonardo sapeva benissimo studiare per i suoi protettori.

Le occupazioni di Leonardo a corte erano le più svariate e anche per Luigi XII organizzò rappresentazioni teatrali, forse anche quelli che accompagnarono l’arrivo del re a Milano.

 

ANCORA A FIRENZE

Alla fine di luglio Leonardo ottenne dal governatore di Milano di poter tornare a Firenze per sistemare i suoi affari e passò l’inverno impegnato nella causa contro i fratelli.

La maggior parte della sua giornata la trascorreva nello studio: ormai nelle sue stanze la mole degli appunti si era fatta imponente, in un disordine totale.

Da quando aveva cominciato le prime ricerche, alla corte di Ludovico il Moro, una quantità enorme di materiale si era aggiunta al bagaglio che Leonardo portava con sé, da una città all’altra, da un protettore all’altro : agli studi di prospettiva e sul cranio umano erano seguiti quelli sull’ottica,  sulla meccanica,  sull’idraulica,  nonché sulle fortificazioni e le armi,  per non parlare del volo,  delle analisi di anatomia e delle osservazioni sull’arte.

Una mole di migliaia di pagine, che avrebbe spaventato chiunque e che scoraggiò in seguito Francesco Melzi, il quale era intenzionato a realizzare la volontà del maestro : comporre dei trattati che raggruppassero le varie materie.

Abbiamo ben capito che il bisogno continuo di indagare era in Leonardo più forte che quello di mettere ordine tra le sue carte.  Continuava così da anni ad ammucchiare appunti e fogli.

Intanto la lite per l’eredità era stata risolta a suo favore: gli venne infatti riconosciuto il possesso di un podere che si trovava nelle vicinanze di Fiesole.

RITORNA A MILANO

Le sue ricerche scientifiche culminarono in un progetto grandioso : un canale che doveva mettere in comunicazione Milano con il lago di Como, il valico dello Spluga e l’Engadina.

Poi passò ad un progetto per rendere navigabile l’Adda: ideò uno sbarramento presso Paderno, in un punto dove una strettoia e un dislivello fermavano le barche. Con una diga in muratura alta trenta metri, Leonardo avrebbe ottenuto in località Tre Corni una grande conca; regolato così il livello dell’acqua, pensava di scavare una galleria attraverso il monte per far passare le chiatte e arrivare senza altri intoppi a Milano.  Il progetto non fu mai realizzato per gli eccessivi cost

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